Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Ho letto Shutter Island (L’isola della paura) di Dennis Lehane nel 2004 (sono un lettore di thriller, non me ne sfugge uno) e ricordo che il romanzo mi piacque, era diverso dagli altri dello stesso autore, niente detection, pioggia nera, niente che somigliasse alla ‘confezione’ dello scrittore che fino allora potevo comodamente confondere con Michael Connelly, John Connolly, simile invece al poco letto Amangansett di Mark Mills: romanzi inattuali che cercano di districarsi dalla routine in cui è immerso il romanzo di genere.
Shutter Island è un thriller anomalo, Lehane fa un salto di qualità, attingendo all’esotismo narrativo di Wells (L’isola del dottor Moreau), il London fantastico dei racconti (Il paese dei ciechi) e quello ‘carcerario’ di Vagabondo delle stelle (al quale si ispirò il masterpiece di Jules Dassin Forza bruta), anche alla ghotic novel di Walpole (Hugh e Horace Walpole), a certi rebus del genere L’uomo che fu Venerdì di Chesterton, addirittura al gotico minore di Edgar Wallace (La porta dalle sette chiavi). Storie insolite in luoghi insoliti ma fissati nella genealogia del genere, stati della mente (follia), luoghi inaccessibili (il faro e le acque insidiose), personaggi spaventosi (dottori, alchimisti, maghi e vittime del terrore indotto da forze oscure). Al romanzo di Lehane si ispira il film di Scorsese, al romanzo di Lehane molti critici hanno imputato il fallimento (presunto) di Shutter Island, alcuni affermando che lo scrittore è ‘mediocre’ (quanto sia ‘mediocre’ Lehane lo dimostrano il suo ultimo romanzo non di ‘genere’, Quello era l’anno, 2008, Mystic River (La morte non dimentica, 2003) dal quale Eastwood ha tratto uno dei suoi capolavori e La casa buia (Gone Baby Gone, 2007) che Ben Affleck ha trasformato in un buon film.
La stessa affermazione è stata fatta infinite volte, sia che un film ispirato a un romanzo davvero mediocre (vedi L’infernale Quinlan da With Masterson) sia riuscito un capolavoro, sia che, non riuscendo un capolavoro (per Shutter Island questo è tutto da verificare), si dà la colpa al romanziere. Va detto che alla categoria dei critici che dicono a suocera (Lehane) ciò che non osano dire a nuora (Scorsese) è, guarda caso, quella che negli ultimi tempi inforca gli occhiali per vedere un film, ed è logico che i critici con la protesi, una volta che l’hanno tolta dagli occhi, non ci vedono più bene, non capiscono che cosa stanno vedendo e un Di Caprio che non sia un verdognolo avatariano cornuto sembra loro ‘l’eterno ragazzino ormai quarantenne’. Del resto, che i critici avec les lunettes dans la poche non hanno mai approfondito i rapporti tra letteratura e cinema, è assodato.
Il critico con la protesi è restio all’abbaglio normale delle immagini, ci sta male se le pantegane che pullulano nelle cavità montagnose sul mare aperto non saltano fuori dallo schermo: peccato, perché, a quel punto, uscirebbero dalla sala per andare a fare un altro mestiere.
Aggiungo che al critico colpito da “avatarite” (una recente malattia dell’occhio) succede il critico certosino-amanuense: il critico-monaco che, invece di vedere un film, annota, taccuino alla mano, quante porzioni di altri film, altre visioni, sono transitate nel film di Scorsese: 20% di Fuller, 30% di cinema RKO, 15% di psicanalisi hitchcockiana, due porzioni di Laing/Basaglia, un etto di Titicut Folies, per esclamare che ‘tutto sa di risaputo’, rimasticato, sempre la stessa solfa, Scorsese è ai minimi storici, mentre esaltano Un Prophéthe che Audiard dovrebbe salire sulle spalle di Marchal per essere a metà altezza del grande Martin.
Shutter Island è un grande film.
Lasciato affogare nelle acque scure di Cape Fear, biblico come Captain Achab, Max Cady, dopo venti anni, risorge dalle acque ringiovanito, rinvigorito e approda, nelle sembianze di Teddy Daniels, nell’isola della paura con il collega della CIA Chuck Aule. Una ragazza è scomparsa, Dolores Chanal, dall’istituto di malattie mentali. Che fine ha fatto, dove e come è fuggita a piedi nudi tra gli anfratti e i marosi delle acque in tempesta? Dall’isola è impossibile scappare: intorno c’è il mare aperto e poco distante, ma difficile da raggiungere, un faro che somiglia all’abitazione di Norman Bates. L’indagine non è meno complicata, Teddy e Chuck si trovano davanti ai molti ostacoli del luciferino dr Cawley e i suoi assistenti che non vogliono che venga alla luce il mistero della ragazza scomparsa e ad altri misteri riguardanti i metodi di cura dei sessantasette pazienti dell’istituto, in cattività in tre padiglioni che somigliano a scalinate infere dell’orrore.
Nella rappresentazione del luogo perturbante, Scorsese, con la sapiente scenografia di Dante Ferretti, si discosta dal romanzo di Lehane, va oltre le citazioni errate dei critici con gli occhiali: non a Fuller, a Wiseman, ad altri ‘nidi del cuculo’ prende in prestito la potenza numinosa, ma alla grande stagione dell’espressionismo figurativo di Böcklin, all’impressionismo esotico di Redon a Moreau, ai pittori dell’immaginario (Füssli, Blake, del quale c’è una riproduzione di una tavola della Divina Commedia nello studio di Cawley insieme alle tavole iconografiche della Salpetriére), ma anche alle successive Carceri di Piranesi, ai meandri senza inizio e senza fine di Escher. Una installazione in piena regola che più che alla sala dovrebbe essere offerta al visitatore dei moderni musei delle avanguardie storiche. Saliscendi vorticosi, linee di fuga, sbarre metalliche invase da luci folgoranti – prosecuzione in chiave postmoderna dei brillanti tentativi kafkiani di Welles/Kafka che finalmente trovano in Scorsese la soluzione definitiva oltre la quale nessuno stupore si darà mai più con tanta solennità, sulle note dissonanti di Mahler.
Il plot di Laeta Kalogridis va a farsi benedire: Scorsese si fa un baffo del verosimile filmico, va oltre il racconto, se ne disinteressa, gli preme molto raccontare, ancora una volta, l’America del maccartismo, della Huac, dei comunisti imprigionati, istituire un parallelo tra le atrocità naziste e la caccia alle streghe, affondare il bisturi sulla carne viva dell’America dei Padri Pellegrini (come aveva fatto nell’incompreso Gangs of New York). Che l’indagine vada avanti nell’oblio del regista, nel lasciare il plot ai poveri di immaginazione: Scorsese ha altro cui pensare: come una società terrorizzata produca soggetti inclini alla paranoia (se c’è un film che somiglia a Shutter Island, questo è The Manchurian Candidate, versione Frankenheimer), individui malati per eccesso di terrore indotto.
Che sia un paranoico a raccontarci che il sangue versato a fiumi sui bambini innocenti in famiglie depresse, la verità, infine non è meno vera che se lo raccontasse un testimone sano di mente, perché, come ha scritto Gianni Celati sul più grande scrittore del secolo scorso, L.F. Cèline, “… [la paranoia] è l’unica risposta dell’individuo al gioco forsennato che gli si svolge attorno.”
Ragionino altri se il trompe l’oeil finale di Shutter Island sia un colpo basso: è importante solo la verità emersa dal delirio.
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