Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Le sfumature sembrano sempre meno adattarsi al cinema di Scorsese. A dispetto di un inzio affascinante, intrigante nell’esibizione della falsità delle riprese, dell’evidenza del trucco e dell’imperfezione che mimano la verità per approssimazione, Shutter Island prosegue inanellando tautologie e ridondanze, imbastendo varianti dei medesimi assunti per, infine, forse ironicamente, svelare la già sospettata verità solo verbalmente. Nella superfetazione del déjà-dit, che si affianca alla sensazione contagiosa del déjà-vu del protagonista, Scorsese perde pezzi di pubblico nell’esibizione della consueta ipertrofia, una mancanza di misura che vanifica, nella reiterazione variata, la suspense. E il plot polanskiano viene risolto all’americana, con pragmatica sottolineatura, senza perdersi nella minaccia dell’ombra e della sua oscurità. Solo illumina l’imprevisto twist finale, che niente nega ma un poco aggiunge al ritratto di una patologia che cela tormentata umanità.
Di Caprio, novello feticcio scorsesiano, ha ormai il volto del tormento, travasato identico in altre pellicole. Ed è nella figura ponte dell’attore, assieme a somiglianze narrative evidenti, che Shutter Island offre un parallelo evidente col coevo Inception, sin dalla semplice familiarità del volto protagonista. In entrambi i film Di Caprio si trova a muoversi tra diversi scardinamenti della realtà, percepita come vera nella sua finzione assolutistica, in un ambiente in costume (il dopoguerra in scorsese e il retro-futurismo di Nolan), tormentato dal fantasma della moglie e ossessionato dal destino dei figli. In questa complicata costruzione di un metafora cinematografica totalizzante, il personaggio idi Di Caprio opera una uguale e irrisolta scelta della finzione, esibita di Shutter Island, soltanto suggerita in Inception, che fa terminare i due film sul preludio della perdita definitiva di sé con la resa incondizionata alla immaginazione di un mondo migliore.
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