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Shutter Island

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Shutter Island

di ROTOTOM
6 stelle

A pronunciare il nome di Scorsese un brivido scorre rapido come una scolopendra lungo la schiena. E questa è una citazione ultracinefila da appassionato di cinema di genere: chi indovina vince la action figure delle sopracciglia di Scorsese.

Il brivido è provocato dal rimescolarsi di un immaginario collettivo forgiato in quarant’anni di enorme cinema americano, quello dell’epica della nazione che cambiava pelle e dei suoi bravi ragazzi protagonisti indiscussi delle sue strade, dell’energia liberata dalla trasformazione che si sublimava nelle immagini carnali potenti ed eccessive del regista italo americano e che ora si confronta con un film dichiaratamente di genere. Il thriller psicologico, con venature horror.

Shutter island è un’isola roccaforte che ospita un manicomio-lager, un pezzo di roccia alla deriva tra flutti di mercurio affogato nella nebbia. Più che un approdo sicuro è un luogo astratto alla deriva nella follia dal sapore tarkovskijano. Un luogo nella mente.

I due agenti dell’Fbi Teddy Daniels/Leonardo di Caprio e Chuck Aule/ Mark Ruffalo indagano sulla misteriosa sparizione di una pericolosa paziente, la ricerca si rivelerà una discesa verso un abisso fatto di scatole cinesi di segreti, enigmi e trabocchetti fino a che il dolore del castigo non monderà la colpa in un finale a sorpresa.

Film dalla confezione di lusso, torna in mente Siodmak e la sua Scala a Chiocciol, con un po’ di neo gotico spagnolo; quando la tensione sale non si può che raccomandarsi a zio Hitchcock; elegante la maestria nell’evocare fantasmi espressionisti nella costruzione della prigione fatta di luci ed ombre opera del direttore della fotografia Robert Richardson, collaboratore storico anche di QuentinTarantino, e  di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, autori delle scenografie del film.

E’ un incubo gotico di buon impatto visivo, Shutter Island che mira all’azzardo  (para)psicologico senza però aver il coraggio di affondare il colpo. Impostato sul meccanismo della risoluzione dell’enigma che ribalta la visione di tutto ciò a cui si è assistito in precedenza, soffre della facilità con la quale questo enigma venga intuito stemperando il finale nella banalità.

Ci mettiamo l’olocausto nazista e il disagio mentale, il simbolismo e i flash back a complicare ancor di più le cose, viene fuori un arrancare verso la bassa nobiltà del genere ostentando un sovraccumulo autoriale dal peso insostenibile.

Un blockbuster anelante quell’anima che l’inosservanza delle regole del genere le nega.

Troppo lungo e prolisso, alterna momenti di grande cinema inanellando scene di sicuro effetto per poi abbandonarsi a lunghe pause didascaliche ricche di dialoghi sterili di significato funzionali solo a spiegare una trama caotica che le immagini stesse non riescono a giustificare. Peccato mortale questo, un continuo coito interrotto che distrae e annoia, un artificio narrativo soprattutto che rivela la vera natura di un film pensato e destinato ad un pubblico medio non disposto a sacrificare la plausibilità alla pura affabulazione. Lo vedremo in tv, presto, opportunamente interrotto dalle pubblicità degli assorbenti e le colle per dentiere.

Uno Scorsese al minimo e con tanto mestiere, questo non si discute ma la stella che gli illuminava la via è tramontata con Casinò, il suo ultimo immenso capolavoro.  

Poi. Di Caprio non è De Niro. Non è un caso che Scorsese abbia legato i suoi film meno riusciti, gli ultimi quattro, proprio a Leonardo di Caprio sempre più costretto in un’ espressione arruffata da pensatore colitico per smarcarsi dall’iconografia del belloccio idolo delle teenager, quale è nonostante barbetta e cappellone calato sugli occhi.

Declino che ha in The Aviator il nadir, in Gangs of New York il superfluo e nel sopravvalutatissimo The Departed la consacrazione del suo passato, premiato con un Oscar lenitivo di decenni di torti ed esclusioni,  elargito per un remake dell’ algido noir ultrametropolitano hong kongese di  Andrew Lau, Infernal Affairs.

Da qualche parte nel tempo, forse proprio nella Shutter Island foriera di fantasmi, Travis Bickle eternamente ghigna dal suo specchio: “Hey, stai dicendo a me?”. No Travis, purtroppo no.

 

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