Regia di Michail K. Kalatozov vedi scheda film
Contrariamente ad altre opere che il tempo rende meno pregnanti, La lettera non spedita è come una bottiglia ben conservata di buon vino. Il film rivisto oggi emana infatti un fascino di gran lunga superiore a quello che era riuscito a trasmettere in passato, e questo grazie soprattutto all’emozionale fulgore figurativo delle sue immagini.
Il successo internazionale (e la visibilità su vasta scala) per Michael K. Kalatozov, arrivò con Quando volano le cicogne grazie alla Palma d’oro conquistata a Cannes (un riconoscimento forse un po’ superiore a quello che potrebbe davvero essere il suo effettivo valore, una volta esauriti gli entusiasmi del momento e riportato il giudizio su una scala di più equanime oggettività) che è anche l’opera alla quale va riconosciuto il merito di aver sviluppato una modalità di rappresentazione abbastanza lontana dal convenzionalismo standardizzato dei film staliniani, e di aver aperto la strada alla corrente del “disgelo” che portò più di una ventata di aria fresca e di interessanti novità non soltanto “contenutistiche”.
Fu un idillio però di breve durata, però, già ridimensionato all’uscita del successivo La lettera non spedita, così poco “considerato” da essere relegato già in partenza, come distribuzione in sala, nella stagnate stagione morta dell’estate e passato si può dire davvero fra l’indifferenza generale (soprattutto da parte del pubblico) e con giudizi critici abbastanza perplessi.
Eppure formalmente il film straordinario, anche se prevale spesso il “tecnicismo” della ripresa e della costruzione per dimostrare “quanto si è bravi” (a volte così esibito da risultare persino irritante) rispetto all’afflato della poesia che comunque emerge prepotente in molte sequenze davvero “strepitose” che lasciano senza fiato per la capacità “creativa” del girato capace di riprendere e “raccontare” anche con insolite prospettive, scenari naturali e “terribili catastrofi” utilizzando una cinepresa mobile e palpitante e una fotografia fortemente chiaroscurata che esalta le sue potenzialità figurative proprio nei contrasti e nelle sfumature come solo il bianco e nero riesce davvero a fare.
La Siberia con i suoi scenari mozzafiato, è la vera protagonista, ed è proprio su un altipiano di questa desolata terra ai confini del mondo, che approda una piccola spedizione geologica composta da quattro persone alla ricerca di giacimenti diamantiferi (siamo nel 1960, la corsa alla conquista dello spazio era uno degli elementi preponderanti che contrapponevano l’Unione Sovietica agli Stati Uniti d’America, ciascuno con l’intento di primeggiare sull’altro, e il tema era davvero di grandissima attualità, poiché i diamanti al di là del loro “valore intrinseco” erano elementi essenziali proprio per la realizzazione pratica degli esperimenti astronautici nello spazio e oltre).
Il nodo centrale, che si sviluppa su una composita contrapposizione di stati d’animo e di psicologie contrastanti che si amplificano nella solitudine di quegli spazi infiniti e nel contatto con la “primordialità” degli elementi (terra, fuoco, acqua, aria), è comunque quello della lotta disperata, quasi angosciante, dell’uomo spesso “impotente” (sicuramente perdente) contro le forze preponderanti e devastanti della natura indomita che è impossibile controllare… Nel contesto, molta importanza assumono soprattutto nella prima parte le conflittualità caratteriali fra i quattro uomini, che necessariamente devono fare “blocco unico” una peculiarità che lentamente però si diluisce via via che gli eventi traumatici avversi cominceranno a far assottigliare la compagine, fino a lasciare il “capo carovana” solo con la sua sorte (anche lui però destinato a “soccombere” a causa di un incendio di proporzioni gigantesche che isolerà i sopravvissuti nella taiga, impedendo ai soccorritori di individuare (e di salvare) i dispersi residui. Il tratto più originale del percorso, è proprio quello del coraggio impotente dell’ultimo superstite che vuole “tornare a casa” dalla moglie (a cui presta il volto per le poche scene che le sono riservate, Tat’jana Samoilova, protagonista assoluta del già citato Quando volano le cicogne e prima star russa - e forse anche unica - ad avere avuto per qualche anno un “valore di mercato” anche all’estero, tanto da essere “utilizzata” per coproduzioni “miste”, così che la ritroviamo persino fra gli interpreti principali di Italiani, brava gente di Giuseppe de Santis del 1964) ma alla quale non riuscirà nemmeno a farle arrivare quella lunghissima lettera che ha scritto (ma non potrà mai essere spedita) nei momenti di pausa e di riposo per “restarle vicino”, per testimoniarle il suo amore e che via via fa trasparire sempre di più con l’accorata diagnosi di ciò che accade, la tragica consapevolezza di quell’impossibile ritorno.
Contrariamente ad altre opere che il tempo rende meno pregnanti, La lettera non spedita potrei invece paragonarla a una bottiglia ben conservata di buon vino perché il filmrivisto oggi acquisisce un fascino coinvolgente sicuramente di gran lunga superiore a quello che era riuscito ad emanare in passato, e questo grazie soprattutto all’emozionale “fulgore figurativo” delle sue immagini. Grande poi è l’interpretazione dell’immenso Inokenti Smoktunovskij (il potente e “suggestivo” Amleto” del capolavoro di Kozin?ev) che trasmette anche “sensorialmente” tutta la disperazione solitaria dello smarrimento e la caparbia forza della volontà che vuole invece “resistere” dominando gli eventi, senza averne purtroppo la forza e la capacità.
Un film insomma che sarebbe bello poter recuperare. Speriamo allora che qualcuno si “ricordi” prima o poi di “resuscitarlo” per lo meno in Dvd (insieme a tanti titoli russi da troppo tempo “disattesi”) permettendo un recupero più universalizzato di una nematografia che qui in Italia, salvo rare eccezioni, rimane ancora oggi davvero poco “frequentata”.
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