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Moon

Regia di Duncan Jones vedi scheda film

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La recensione su Moon

di Kurtisonic
7 stelle

In quanto genere per eccellenza, si possono individuare nel corso del tempo diversi mutamenti strutturali dei canoni che hanno contrassegnato la fantascienza come punto terminale di un immaginario teso a soddisfare l’innato desiderio umano di allargare a dismisura i propri orizzonti. Se da subito la rappresentazione fantascientifica attraverso il cinema metteva a confronto evoluzione tecnologica con intelligenza e abilità umana che teneva sotto controllo le sue stesse invenzioni in rapporto al solo ambito esterno ignoto e attraente, si è passati da una progressiva disumanizzazione dell’elemento umano che si metteva sullo stesso piano  delle ingegnerie spaziali di cui diventa subalterno accettandone supinamente il sotteso senso etico di conquista e di supremazia,  per poi avviarsi verso una fase di scorporo vera e propria dell’uomo in cui tornano a prevalere sentimenti e conflitti che devono convivere e forzatamente scontrarsi con una nuova condizione  esistenziale. Moon, film d’esordio di Duncan Jones, figlio di David Bowie, appartiene indiscutibilmente a quest’ultima fase. Una messa in crisi dei canoni di genere e dei suoi elementi cardine, perseguita da grandi autori quali  Kubrick e Tarkovskji e le loro opere, per passare attraverso film come L’uomo che fuggì dal futuro(1971 G.Lucas) fino ad arrivare ai giorni nostri con Interstellar(2014 Nolan) per manifestare la fondatezza e l’avversione per un futuro affatto tranquillizzante. Che poi continui a proliferare la sci-fi d’azione tentacolare con i suoi protagonisti ubbidienti e affini alla cultura dominante degli ultimi decenni senza affanni di pensiero, è tutt’altra cosa ma che coincide con le regole innocue dell’intrattenimento che mostra qualcosa a qualcuno che coscientemente o no si ritiene al riparo da essa. Sam Bell è un astronauta specializzato che vive e lavora in solitudine da tre anni dentro una base lunare per convertire energia necessaria al pianeta terra. I suoi unici contatti sono confinati a messaggi video indiretti che si trasmettono con una lunga scansione temporale, e alla compagnia di Gerty, un’intelligenza artificiale robotizzata che lo assiste costantemente. Jones introduce nell’ambiente prevedibilmente asettico e stilizzato della base spaziale delle screpolature visive prima, e psicologiche poi, che corrodono e lentamente trasformano il racconto, fino a far diventare apparato paratestuale la scenografia di genere. Il bravo protagonista interpretato da Sam Rockwell, una vera faccia qualunque, nella sua crisi esistenziale e d’identità, compie un vero e proprio percorso a ritroso, recuperando memoria, ricordi e sentimenti. Le stanze della base, le pareti sterilmente lucide, gli arredi anonimi che dovevano aiutarlo a trascorrere il tempo, diventano un palcoscenico teatrale, lontano da un simulacro carcerario ma veritiero quanto un lucido gioco di specchiamento. Jones adotta stratagemmi funzionali e sorprendenti che alimentano e dosano la tensione narrativa, seppure qualche piccola incoerenza è destinata ad emergere, specialmente nel rapporto fra Sam e Gerty, dotando quest’ultimo di un’autonomia eccessiva corredata da una specie di autostima inusuale per un robot programmato dalla società per cui lavora l’astronauta. Il dna del regista denuncia una buona predisposizione all’accompagnamento sonoro, mai preponderante né tanto invadente da sottolineare troppo qualche passaggio puramente emotivo. Moon rimane un film quanto mai di genere, ma che contiene tutti quei motivi di riflessione e di ripensamento utili alla rivisitazione, dall’alienazione alla ricerca di un senso dell’esistenza, dalla solitudine interiore più profonda alla necessità di lasciare un segno della propria vita ad altri, al disperato bisogno di fuggire l’inutilità e di inseguire una forma di liberazione. Oscura o meno, ma che sta dall’altra parte, della luna naturalmente.

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