Regia di Duncan Jones vedi scheda film
Il figlio dell’uomo che cadde sulla terra nel lontano 1976 torna a rimirar le stelle da posizione privilegiata, la Luna. Cominciare da David Bowie è lecito, straordinario musicista e attore lunare, il viso naturalmente alieno che diede corpo all’ospite dallo sguardo smarrito nel bel film di Nicolas Roeg, autore di una fantascienza filosofica e intimamente pessimista che dimostrava sia come non fossimo soli nell’universo ma anche come riuscissimo ad essere tristemente soli sulla piccola terra.
La solitudine dell’alieno di Bowie ha generato un figlio, Duncan Jones (aka Zowie Bowie) qui alle prese con un'opera prima di notevole maturità artistica.
Sam Bell è uno straordinario Sam Rockwell, unico operatore umano della stazione spaziale sulla Luna, sulla sua misteriosa faccia nascosta. La stazione spaziale è un’impresa mineraria che estrae dal suolo un prezioso gas indispensabile per la produzione dell’energia sulla terra.
Quando la missione triennale sta per avere fine, Sam comincia ad avere strane allucinazioni ed è vittima di un grave incidente. Quando si risveglia scopre un altro se stesso ferito e un modo molto poco ortodosso di contenere i costi del personale lassù, da parte della compagnia mineraria.
Egli viene infatti sistematicamente ucciso e sostituito da un clone.
Il film di Jones è nettamente in controtendenza rispetto al concetto di fantascienza in voga oggi, totalmente concentrata nel produrre uno stupore stordente generando trame al servizio degli effetti speciali ( i film catastrofici emmerichiani) o molto peggio riciclando idee del passato con remake, sequel, prequel (Star Trek, Star Wars, Ultimatum alla terra, La guerra dei mondi) oppure rattoppando la cronica mancanza di idee con pezze estratti da fumetti (Hulk, X man e figli minori Marvel) e quando neppure questo è bastato, violentando impunemente opere immortali di grandissimi scrittori, vedi Io sono leggenda di Richard Matheson o I robot di Isaac Asimov entrambi “curati” dal serial killer della fantascienza classica, Will Smith.
Non c’è nulla di male in tutto questo, è business bellezza, e la fantascienza è l’unico genere cinematografico che costringe il mondo reale a sforzarsi di progredire tecnicamente per presentare in maniera credibile i mondi che essa esige, e questo progredire genera soldi. Risultato, il proliferare di tanti film di qualità tecnica ormai livellata su standard medio alti ma mediocri dal punto di vista del linguaggio cinematografico.
E anche questo non è del tutto male, il genere si ciba del sottobosco di opere non eccelse ma che contribuiscono a nutrire le passioni in attesa dello sbocciare del fiore che non t’aspetti. I segnali che il terreno fosse gravido e pronto a partorire qualcosa di prezioso si erano già avuti con la creazione, indipendente o passata in sordina, di film con idee e approcci diversificati alla fantascienza, imperfetti o grezzi che fossero questi film (Franklyn, Dante 01, Sunshine e il recentissimo District 9) si sono distinti comunque dalla piatta produzione seriale di prodotti in plastica e digitale dei blockbuster usa e getta.
Moon è il ritorno alla fantascienza filosofica, niente di nuovo in effetti, ma se si pensa che l’ultimo esperimento del genere è il rifacimento ( orrore!) di Solaris da parte di Mr. Ocean Soderbergh allora va salutato con gaiezza.
Duncan Jones riflette con disarmante semplicità sulla società dell’uomo, sull’esistenza dell’essere umano e sulle deflagrazioni e contraddizioni che questi due mondi generano quando si scontrano. Tuttavia il registro del film è focalizzato su tutto ciò che manca, sui silenzi e le atmosfere, sulla costruzione delle immagini strutturandole inizialmente come una storia di fantascienza classica per poi demolire le certezze visive (la base, il robot, il clone, la necessità di energia) con suggestioni psicologiche, presenze oniriche, dissoluzioni temporali spostando l’interesse per la storia dagli eventi, rarefatti e immersi in un liquido manifestarsi, ai loro effetti, preferendo inquadrare le criminali responsabilità della società terrestre sull’unico uomo in scena che ne regge i destini con il proprio lavoro, apice vivente della spietata sconsideratezza del capitalismo sfrenato, quello che abbisogna di macchine al proprio servizio, non importa che queste macchine siano umane.
Il film non a caso si svolge tutto nella faccia nascosta della Luna, quella che ha ispirato sognatori e astronomi insieme e che metaforicamente si pone come nemesi della rassicurante parte illuminata assumendo una negatività di statura metafisica, e mette in scena l’identità dell’essere umano sciogliendola in una menzogna spalmata per decenni su cloni del primo operatore, il primo Sam Bell il primo portatore di memoria e di emozioni, di ricordi, d’amore e speranza e che una volta morto ha visto replicare il proprio essere su copie di sé.
Sam Bell è stato il primo, l’essere senziente che ha dato il via alla vita sull’astro arido, è un monolito che la società degli uomini ha scoperto e sfruttato ad proprio esclusivo vantaggio. E il ronzio incessante che si propaga nella notte lunare non è quello di un messaggio da Giove ma quello del silenzio che avvolge la vita falsa di Sam.
E’ il ronzio del suo aiutante, Gerty (in originale con la voce di Kevin Spacey) un robot che comunica con emoticons, poiché per sopravvivere tre anni in condizione di solitudine assoluta senza impazzire le emozioni sono l’unico aggancio alla realtà. Una sorta di Hal 9000 complice, amico, sensibile nella sua meccanica espressione di quella sensibilità che sarebbe prerogativa degli uomini e che gli uomini hanno preferito delegare ad una macchina.
Sam Bell morirà, così come è destino che muoiano tutti gli esseri viventi ma il suo destino non è legato al caos imperscrutabile delle scelte umane che per brevità si preferisce definire fato quanto dalla decisione conscia di un programma ben definito.
L’uomo si sostituisce a Dio e perpetua l’empio esercizio della creazione sul suo unico Adamo. Un dio autistico e autoritario, tangibile nelle opere create per inscenare l’unica ragione di vita possibile celando il mistero non nella fede ma nell’interesse.
La stazione spaziale di Moon non è un luogo della mente come nel capolavoro Solaris di Tarkowsky , quanto la mente nel luogo, imprigionata dall’architettura essenziale della stazione spaziale dalle forme concepite per resistere alla mancanza di atmosfera prima che ergonomicamente domestiche per l’uomo, mente resa docile dall’iniezione di ricordi inesistenti, di appigli emotivi, della chimera di un futuro impossibile.
L’approccio minimalista alla messa in scena giova al film, Duncan Jones gioca sui silenzi dei corridoi e sull’espressività attonita di Sam Rockwell che fornisce il suo sguardo ironico e disilluso insieme ad una storia che sembra scritta solo per lui. L’abbacinante luce artificiale dell’interno della base fa da contrasto al buio dello spazio nelle scene esterne e tutto il film è pervaso da un inquietante senso di ipnotico stupore e di ossessiva inquietudine. Nello spazio il sole è un punto bianco nel nero del cielo, la fotografia fredda dai cromatismi quasi azzerati è al servizio dei blu elettrici dei monitor che riprendono e si collegano con un transfert emotivo all’azzurro della Terra vista dalla base.
Collegamenti, rimandi, citazioni, tutto è reimpastato con sapienza e cultura (non solo cinematografica) al servizio di una storia semplice e commovente, assolutamente credibile nella sua eccezionalità grazie all’uso quasi azzerato di effetti speciali che non siano quelli strettamente necessari per creare l’ambientazione, da una intensificazione tecnologica che riprende ciò che nella realtà è se non già esistente, almeno sulla carta possibile, il che rende plausibile la scienza che viene messa al servizio della vicenda e che si avvale soprattutto di una regia solida portatrice di un’idea di cinema ben precisa refrattaria a qualsiasi spettacolarizzazione fine a se stessa.
La fantascienza nella sua connotazione parassitaria è un genere che si nutre della sintassi di tutti gli altri generi per parlare d’altro e reinterpretare le tensioni sociali del momento storico che attraversa, rimodellandole criticamente se non anticipandole, secondo l’evolversi non solo della tecnologia ma anche e soprattutto dell’etica che la governa, della morale che la giudica, della società che la sfrutta, della psicologia che la assorbe.
Duncan Jones ha assorbito la lezione dei già citati Solaris, 2001: odissea nello spazio e di tutta la fantascienza intimista ed etica, Blade Runner è l’altro caposaldo del regista che ne riscrive i concetti in chiave molto personale.
Se in Blade Runner il replicante al cospetto della morte salvava la vita all’uomo poiché vivo in quanto tale, elevando l’astrazione della coscienza all’iperbole del cosmo e delegando ad una lacrima nella pioggia la sua conoscenza dell’universo, in Moon si ha invece la separazione tra l’Io e il Sé riconducendo il dubbio etico ad una percezione dell’essere umano vilipeso nei suoi diritti più intimi e personali. Sam Bell si riconosce nel suo doppio, il clone che dovrebbe sostituirlo alla guida della base e rinuncia alla salvezza del corpo poiché il suo Io, l’Essere profondo è (anche) nella carne del clone che fuggendo dalla base riporterà in vita i suoi ricordi, la sua esperienza e il suo dolore per la consapevolezza della perdita di tutti gli affetti, riallineandosi al destino del primo Sam Bell morto chissà quando.
Due corpi e un’anima sola, il tempo che ritorna perversamente sui propri passi ad erodere sempre la stessa vita, un inganno perpetrato instillando le medesime speranze su registrazioni malignamente riprodotte, epoca dopo epoca, clone dopo clone, all’infinto. La maledizione dell’immortalità, il sogno oscuro che alberga in ogni mente umana che non abbia una potente filosofia di vita a cui attenersi e in ogni società fondata sul sopravvivere non sull’esistere.
Poi, una voce dalla terra, quasi una voce off di un qualsiasi strumento di comunicazione di massa, nell’ultima scena bolla Sam Bell di ritorno dalla Luna come sovversivo e pericoloso reazionario. Bentornato a casa.
Non è un caso che Moon sia concepito nella faccia buia della Luna, in quel lato era nascosto questo piccolo gioiello di film.
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