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The Road

Regia di John Hillcoat vedi scheda film

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La recensione su The Road

di mc 5
10 stelle

Ho solo bisogno di riordinare le idee con calma. Perchè questo film mi è arrivato addosso con la forza di un ciclone. Ed è paradossale dirlo a proposito un film che è dotato di un ritmo lentissimo. Prima di tutto, giusto per chiarirci fin dall'inizio, non solo un film gigantesco, ma anche un probabile cult movie. Una pellicola la cui visione, a tratti faticosa e lentissima, è una vera esperienza. Che consiglio a tutti. Avrete saputo, immagino, che la visione è stata possibile grazie ad un piccolo miracolo. Nel senso che (flop americano prevedibile a parte) la distribuzione nelle nostre sale pareva ormai preclusa, in pratica nessuno lo voleva in quanto giudicato film "TROPPO DEPRIMENTE". Detta così sembra una battuta, e invece è tutto vero. Finchè la "CDE" mostrando un coraggio da leone, si è battuta per aggiudicarsene l'acquisto, e per di più in un buon numero di copie, comprese diverse multisale. Il film sta incassando cifre non astronomiche, ma considerando che è comunque nella top ten, si tratta di un risultato già ottimo per una pellicola giudicata "OSTICA". Ecco, vorrei soffermarmi proprio su questo termine ("ostico") per proporre alcune riflessioni. Chi mi conosce sa che io ho col cinema un rapporto (come dire)...da spettatore popolare. E dunque prediligo un cinema "di sceneggiatura" e "d'attori", cioè scritto in modo solido e comprensibile e rappresentato da attori di talento. Un cinema che "arrivi" alla gente, possibilmente senza compiacerla troppo e senza, anche, "compiacersene" troppo. Posso fare due esempi, credetemi i primi che mi vengono in mente: Hitchcock e Truffaut. Per intenderci io non ho certo un approccio da topo di cineteca, nè tantomeno da studente "damsino" fighetto oppure da (so che qualcuno s'incazzerà) "fuorisede fancazzista", genere quest'ultimo assai diffuso qui a Bologna. Amo coloro che riescono a far convivere la passione per il cinema con giornate di lavoro estenuanti o con gravosi impegni famigliari. Amo un pò meno chi di cinema discetta da saputello quando poi ha come unico problema quello di scegliere l'osteria, la birreria o il centro sociale occupato presso cui tirare mattina. Perchè questi discorsi?  Ma perchè le categorie che ho ironicamente punzecchiato di solito si buttano a pesce sui film più estremi, più incomprensibili, più pieni di codici e simboli, salvo poi rivalutare con mossa furbetta il solito cinema di genere (spesso a sproposito scegliendo proprio le pellicole più scadenti). Se posso citare un caso interessante nella sua dinamica di fruizione, prenderei l'ultima follìa firmata Resnais. Ora: chiaro che lungi da me l'idea di sminuire la fama del "Maestro" francese, ma l'ultimo suo lavoro mi ha notevolmente irritato, col suo patetico intento di spiazzare ad ogni costo lo spettatore. Caro Resnais, tu dirigi un film che prende le mosse da una storia avvincente, utilizzi attori eccellenti che sfoderano un umorismo finissimo e gustoso, e poi...a un certo punto fai precipitare la vicenda in un abisso di svolte nonsense una più bislacca dell'altra, con l'effetto previsto di far letteralmente godere lo spettatore dai gusti tortuosamente eccentrici, quello del tipo che se il film ha una sceneggiatura di ferro lui s'annoia a morte. Insomma: si può fare un cinema "alto", nobile, poetico, magari anche non facile da cogliere nei suoi ritmi lentissimi, senza per forza fare un esercizio di stile eccentrico e trasudante intellettualismo cheap? Un cinema che, benchè realizzato in forma tutt'altro che spettacolare e compiacente, riesca con forza a comunicare al cuore e ai sentimenti della gente? Si può. E questo "The road" lo testimonia. Una pellicola antispettacolare che richiede pazienza e attenzione, una sfida al tempo e allo spazio (due ore in cui succede in fondo poco e che ha uno sfondo sempre uguale). Eppure un film che non si compiace intellettualmente della propria staticità. Un film fatto di carne e sangue, che ti parlano, se li vuoi saper ascoltare. Dunque un'opera di cui è possibile innamorarsi (come è capitato a me) sia a livello di linguaggio cinematografico (chiaro e comprensibile, benchè espresso con immagini non sempre fruibili con meccanismo sciolto ed agevole...) sia a livello di contenuti (quelle immagini lente veicolano pensieri e concetti impegnativi ed angosciosi). Ma di un'angoscia non sterile, che ci induce a riflettere sul nostro cammino verso un futuro opaco. Il (relativo) successo al botteghino indurrà qualche esercente a trattenerlo qualche giorno in più. Approfittàtene, se ancora non lo avete visto. E mettete in conto che potrebbe capitarvi qualche vicino di poltrona che sbuffa, controlla l'orologio o consulta spesso il proprio fottutissimo telefonino. Mettiamola così: male che vi vada, potrete pur sempre godere di due ore di performance di un grandissimo attore come Viggo Mortensen. La storia narrata è ridotta all'osso. Dopo un evento apocalittico che però nel film non viene mai spiegato, un padre e il suo piccolo figlio vagano, armati solo di un carrello e di una pistola con due residui colpi in canna, attraverso l'America, inseguiti dalle minacce del freddo, della fame e di qualche nucleo di sopravvissuti cannibali nascosti chissà dove. Non hanno mèta nè futuro. Marciano verso un ipotetico sud, ma senza certezze nè speranze. La loro solitudine è devastante e non ha sbocchi. E contagia lo spettatore  che si ritrova solo con sè stesso ad immaginare cosa potrebbe essere la Vita senza la Vita. Senza animali, senza alberi. La morte di ogni segnale vivente. Una Terra che perfino Dio ha dimenticato di salvare. Il film è dominato da una spessa coltre di pessimismo che lo avvolge come una cappa insostenibile. Evidentemente l'autore del romanzo non nutre grande speranza o fiducia nelle risorse dell'intelligenza umana, interpretando la volontà dell'uomo in chiave eminentemente (auto)distruttiva. E in questo senso possiamo dire che Mortensen incarna psicologicamente l'ottica di Mc Carthy. Egli sospetta di tutti, in netto contrasto con l'attitudine generosa del figlio che vorrebbe condividere con chiunque quel poco che ha. No, Mortensen diffida di ciascuno trovi sul proprio cammino, ognuno per lui è un potenziale cannibale. E quando da qualche viandante viene apostrofato, lui replica solo con dei monosillabi, sempre pistola alla mano, guai a dare confidenza a chicchessia. Ma allora il protagonista in cosa crede? E crede in qualcosa o in qualcuno? Ecco, questo è uno dei risvolti più interessanti, e anche controversi, del film: il rapporto di "Viggo" con la Religione. Premesso che non ho letto il romanzo di Mc Carthy, e dunque non posso riportare che mie superficiali impressioni, effettivamente Viggo (continuo a chiamarlo così perchè nel film nessun personaggio ha un nome di battesimo) cita spesso Dio. A un certo punto egli definisce anche il figlio "il Verbo di Dio" vedendo in lui un Angelo. Però io preferisco interpretare tutto ciò come una sorta di Spiritualità Laica. Non riesco infatti a cogliere nelle azioni del protagonista e nei suoi pensieri alcuna traccia di "devozione" religiosa. E a supporto di questa tesi vorrei segnalare un dettaglio che mi ha colpito proprio a sottolineare questa condizione di "religiosità laica" del protagonista.
Quando lui e il figlio (affamati fino allo stremo) trovano una cantina piena di ogni ben di Dio da mangiare, Viggo si pone a mani giunte e ringrazia improvvisando la più laica delle preghiere, in cui -attenzione!- non ringrazia Dio per quella occasione fortunata, ma bensì si rivolge idealmente agli sconosciuti proprietari che hanno abbandonato quella cantina. Qualcuno di voi avrà forse visto un altro film piuttosto recente, "Codice Genesi", anch'esso ambientato in uno scenario post atomico (pellicola peraltro assai differente e votata al genere action). Ebbene, anche là avevamo un sopravvissuto ad una apocalisse (Denzel Washington) ma in quel caso egli era palesemente "strumento divino", messaggero del Verbo di Cristo che vagava per strade deserte portandosi nello zaino le Sacre Scritture. Qua invece, niente di tutto questo. Qua Viggo ha un solo chiodo fisso in testa: proteggere il suo bambino. Ciò che a mio avviso differenzia questo film da tutti gli altri del genere "post apocalittico" visti finora, è che, avendo scelto di non piegarsi ad esigenze commerciali, tutti gli incontri che l'uomo e il bambino fanno sul loro cammino, hanno una loro ragione d'essere, portano un messaggio, o comunque significano qualcosa, e sono interessanti proprio in quanto non devono rispondere ad esigenze di spettacolarizzazione in senso "action". Insomma, siamo agli antipodi rispetto ad un "Io sono leggenda" con Will Smith (che, al confronto, sembra una scemenza...e forse lo è). Quanto al cast, detto del figlio che è un giovanissimo attore davvero bravo, veniamo alle tre star. Viggo Mortensen, lo dico senza tentennamenti, offre una performance da Oscar, la più intensa e sofferta della sua già fulgida carriera. Il volto estenuato e sofferente di questo vagabondo derelitto è uno splendore. E poi a Mortensen va riconosciuto di avere preso parte, negli ultimi anni, ad alcuni film uno più memorabile dell'altro, da "A history of violence" a "La promessa dell'assassino". Robert Duvall (del tutto irriconoscibile, col volto nascosto dietro una maschera incredibile!) dà vita ad un cammeo di pochi minuti ma assolutamente indimenticabile per ogni cinefilo. E poi quella creatura misteriosa che è Charlize Theron: "misteriosa" nel senso che ancora non riesco a capacitarmi di come diavolo abbia fatto una modella (peraltro fra le tre o quattro donne più belle del mondo) a diventare in pochi anni un'attrice così mostruosamente brava. Un capitolo di commento a parte merita la passione universale che è alla base del film: il vincolo d'eterno amore che lega il protagonista al suo bambino. Un legame talmente immenso che va perfino oltre il valore della vita: il padre sarebbe disposto perfino a sacrificare quella giovane vita pur di evitargli atroci sofferenze. E qui, chiedo scusa, ma non posso fare a meno di richiamare ricordi  strazianti che il film mi ha evocato a livello personale. Le sequenze finali, col ragazzino al capezzale del padre moribondo, mi hanno fatto rivivere (potete immaginare con quali effetti) gli ultimi giorni che ho vissuto in ospedale accanto a mio padre in coma (e fra l'altro assomigliava pure vagamente a Mortensen). Forse proprio per questo ho vissuto quelle immagini finali attraverso una consapevolezza e una sensibilità speciali. Qualcuno, davvero non ricordo chi e dove, ha notato che quel bambino che cammina di fronte al mare non può non ricordare le indimenticabili immagini conclusive de "I 400 colpi". Beh, sinceramente mi pare un accostamento un pò ardito, data la totale diversità fra le due pellicole. Eppure, mi piace, intimamente, coltivare dolcemente l'illusione che ad un cinefilo raffinato come Truffaut un film come questo sarebbe piaciuto da morire. Cercavo, per chiudere questa recensione, poche parole che esprimessero in sintesi il senso del film. Ho trovato solo queste. Dolore e Delicatezza. Che -quando si incontrano- generano scintille d'Emozione.
Voto: 10

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