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I gatti persiani

Regia di Bahman Ghobadi vedi scheda film

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La recensione su I gatti persiani

di Peppe Comune
7 stelle

Ashgan (Ashgan Koshanejad) e Negar (Negar Shaghaghi) sono due ragazzi iraniani con una grande passione per la musica. Sono da poco usciti di galera ma questo non gli impedisce di sfidare i divieti imposti dal regime teocratico di Teheran e coltivare il sogno di costituire una rock band e riparare in Inghilterra per publicare un disco. Per fare tutto questo si affidano a Nader (Hamed Behdad), un ragazzo pieno di iniziative ed assai inserito nell'ambiente della musica "sotterranea" della città, che li aiuta a trovare i musicisti adatti al loro scopo e a procurargli i passaporti per poter uscire dal paese. I ragazzi si muovono furtivi seguendo le tracce delle tante band musicali disseminate per la città, costrette a suonare nei luoghi più impropabili per liberare il proprio talento : in aperta campagna o in una stalla fetida, sui tetti dei caseggiati o sulla sommità di palazzi in costruzione, ovunque si può essere al riparo dalle fauci della legge loro cantano la propria gioia di vivere, ovunque si è lontani loro possono resistere.

 

 

"I gatti persiani" di Bahman Ghobadi ci parla un Iran sotterranea, quella rappresentata da tantissimi ragazzi vogliosi di aprirsi con naturale disinvoltura al mondo ma costretti a reprimere in clandestinità tutta la rabbia che portono in corpo. E' un film che segue un andamento insolito stante i "canoni classici" del cinema iraniano, oscillante tra una forma cinema che va dal videoclip musicale (sono diversi e gradevoli i momenti musicali) al documentario d'inchiesta, un aspetto questo che sta a certificare un punto di maturità raggiunto da Ghobadi che dimostra di saper cambiare registro stilistico senza disperdere la capacità di raccontare l'Iran nella sostanza retograda del suo regime teocratico. Non è affatto dispersa la lezione originaria che più marcatamente aveva caratterizzato lo splendito "Il tempo dei cavalli ubriachi", vale a dire, quell' aderenza alla realtà fattuale del tutto funzionale a proiettare verso l'esterno la variegata complessità culturale della socetà iraniana. Se nel primo film ci si concentrava sulla storia dimenticata di un popolo (quello iraniano di etnia curda) posto, non solo ai confini di più stati che se ne contendono le sorti senza però procurargli alcun beneficio concreto, ma anche ai margini del sedicente mondo civilizzato, qui ci troviamo  nel centro pulsante di un grande paese come l'Iran, in quella Teheran brulicante di traffico e di passioni, una capitale come tutte le altre, che a guardarla superficialmente somiglia molto da vicino alle sue "colleghe" occidentali (come già aveva sottilmente evidenziato Jafar Panahi in film come "Lo specchio" e "Oro rosso") ma che tuttavia mantiene alta la capacità conferitegli dal regime di reprimere ogni gesto non conforme alle ottuse regole di una religione tutta loro (del resto, mi viene da pensare, non è una finalità perseguita da ogni regime più o meno dittatoriale quella di arrivare alla netta preminenza di un adesione superficiale della realtà circostante piuttosto che porla al vaglio di un approfondita analisi critica attraverso la progressiva erosione di quegli spazi culturali che sanno alimentare le capacità critiche di ognuno ?). Il film ondeggia volutamente tra questi due aspetti, tra una "normalità" ostinatamente esibita e le spinte libertarie che albergano nei giovani cuori, tra una superficie che pare accettare tranquillamente lo status quo e i luoghi chiusi trasformati nei tempi dell'iconografia occidentale (si vedono poster di Marlon Brando, Humphrey Bogart, Beatles, dvd e cd contraffatti e c'è anche un uccello di nome Monica Bellucci). Da qui, evidentemente, nasce la scelta del titolo, perchè il riferirsi a un animale di gran valore come il gatto persiano, che preferisce starsene a poltrire in quattro mura domestiche, all'ombra del suo conclamato prestigio (anche l'origine meticcia dell'antica Persia può essere un riferimento, perchè no), da l'idea di qualcosa che è costretta a rimanere sotto traccia se vuole sopravvivere, a camminare rasente i muri se non vuole incorrere nei tentacoli dei "guardiani della fede". Quel "qualcosa" non sono solo i ragazzi che si muovono sempre col timore di comportarsi in maniera non conforme alle regole imposte, che non potendo vivere liberamente la propria passione per la musica, respirarne a pieni polmoni tutta la carica spirituale che è capace di sprigionare, si sentono come degli ospiti nella terra che comunque amano. Quel "qualcosa" è anche la musica, vera mattatrice del film, simbolo di integrazione culturale (Rock, Pop, Rap, folk, Heavy Metal, musica tradizionale farsi) in un tempio del pensiero unico, matrice indiscussa della libertà di espressione artistica nella "scuola" dell'omologazione oscurantista. Un film bello da ascoltare e amaro da riflettere.     

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