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Nymph

Regia di Pen-ek Ratanaruang vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su Nymph

di Marcello del Campo
8 stelle

Con quali occhi vedere questo film di Pen-Ek Ratanuarang (Nymph è il titolo internazionale) è un problema, perché siamo davanti a un’opera sulla scomparsa come lo erano L’avventura di Antonioni e Picnic a Hanging Rock di Weir. A rendere il film oscuro e poco leggibile è la precipua caratteristica (vedi Last Life in the Universe) di questo regista cambogiano a inoltrarsi in una inestricabile ‘foresta dei simboli' (rubo all’antropologo Victor Turner il titolo), nei quali egli stesso resta imbrigliato, figuratevi poi lo spettatore cui viene offerto un plot banale, quale una crisi coniugale da risolvere con un viaggio chiarificatore nella grande foresta di Thai.
Qualcosa vorrà pure dire, a qualcosa potrà alludere il titolo del film, ma se la ninfa resta invisibile, o appena lambita dalla steadycam mentre furoreggia nuda e selvaggia nella libertà che il mito le ascrive, di che parlare, tranne che del pericolo che incombe sul film di somigliare a un raffinato horror senza orrore? Perché del ‘genere’ il film mantiene le premesse e del melodramma il prodotto finito, con qualche incursione nella new age, segnatamente The Fountain, irrisolto anche questo film di Aronofsky che almeno commuoveva con il miracolo dei revenant alla vita.
Il viaggio purificatore della coppia in disarmo Npo (Jayanama Nopachai) e May (Wanida Therntanaporn) nella foresta rigogliosa di Thai, dovrebbe, nelle intenzioni dello script, indurre la donna, che tradisce Npo con il suo capo ufficio Korn (Chamanun Wanwinwatsara), a ritrovare l’amore perduto per il coniuge, uomo mite e attratto dal mito della foresta – non per caso fa il fotografo per professione.
Ho detto all’inizio della scomparsa, infatti il primo a scomparire è proprio il regista che affida alla camera la perlustrazione del luogo, nel senso che tutto ciò che vediamo (vedi il magistrale piano sequenza di circa dieci minuti in apertura del film) è ciò che la Ninfa vede.

Ma chi la Ninfa?

La Ninfa (senza scomodare Kerenji) è una delle tante figlie di Giove, in questo caso si tratta di una Ninfa Driade, per capirci una Ninfa che vive in una quercia gigantesca: a questa immensa, pre-umana quercia si reca Npo nel suo peregrinare, attratto dalla sua arcana bellezza.
Mentre Npo girovaga alla ricerca della felicità perduta, May si annoia, fuma, è insofferente, si sottrae agli slanci di fiamma del consorte cui nega l’amplesso da un bel pezzo (“Facciamo l’amore?” è la domanda che l’uomo pone ossessivamente alla donna).
La Ninfa invisibile che osserva dal folto degli alberi colossali, dall’intrico di foglie, contribuisce alla seconda scomparsa, quella di Npo.
Il sesso negato da May, moderna icona dell’insoddisfazione, è il prodotto di una civilizzazione sterilizzata degli istinti primari; il sesso che ha portato Npo a immedesimarsi nella quercia, a scrutarne la bellezza, a toccarne i nodosi tronchi, a carezzarne le fessure come si fa in amore, è il corrispettivo ancestrale, furioso, dionisiaco, sfrenato, nudo e selvaggio, inciso in un tronco dal quale infine si libera la femmina primordiale, la Driade donatrice di incantati amplessi.
Può darsi che nella foga di scrivere di un film che non ambisce a tale lettura approfondita, io possa commettere l’errore di sovrappormi a quello che, in apparenza, potrebbe essere un film non riuscito.
Ma se spostiamo l’ottica dai banali contenuti pretestuosi (pre-testuali), allora si potrà rinvenire in Nymph quanto profondo sia il modo di guardare di Ratanaruang e che protagonista assoluto, permanente, al limite degli sperimentalismi di Michael Snow (Wavelength su tutti), sia il paesaggio, sereno ma periglioso, poetico ma minaccioso – a seconda degli occhi che lo guardano – , dove i drones di Koichi Shimizu sussurrano i soffi, dimenticati dagli uomini, del tempo in cui tutte le cose facevano parte di un ordine cosmico panteistico.
Ricordando Losey, Npo e May sono soltanto malinconiche figures in the landscape.
 

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