Regia di Alejandro Amenábar vedi scheda film
Mateo Gil, sceneggiatore abituale del regista spagnolo, va giù pesante con una sceneggiatura approssimativa sulle vicende che portarono alla fine del IV secolo d.C. alla distruzione della biblioteca di Alessandria e alla persecuzione dei cristiani contro gli ebrei. Se e quanto sia veritiera la storia narrata in Agorà, lascio agli storici il compito di commentare e indagare: qui si parla di un film che a mio parere si prende troppo sul serio, narrando fatti che neppure la storiografia più illuminata ha del tutto svelato.
È certo che la filosofa neo-platonica Ipazia è esistita (ne fanno menzione Suda, Damascio, che ne descrive la morte orrenda, voluta dal vescovo Cirillo, poi fatto santo della chiesa – niente di nuovo, anche il faccendiere Escrivà è stato santificato qualche anno fa, siamo certi che faranno santo anche il ministro Bondi, ne ha le fattezze paffute). Ipazia, si sa, ma mancano fonti certe fu matematica, filosofo, astronomo valente (una donna di duemila anni che somiglia molto a Margherita Hack è un controsenso oggi che in parlamento stazionano intelligenze come la Gelmini e la Binetti!).
Vado a braccio, questo film è per me di scarso interesse estetico e filosofico e mi è piaciuto quanto una puntata di “Ulisse, Il piacere della scoperta” del figlio di Piero Angela, e mi pare di poter affermare che è un brutto film.
Brutto come digitalizzazione della città di Alessandria, ricostruita come neppure Vespa fa con gli abituri dei crimini.
Brutto perché, privo di verità storica, ambisce a dare lezioni di storia talmente da “Reader’s Digest” che il dotto Gianfranco Ravasi ne farà un boccone succulento di indagine storiografica comme il faut.
Brutto perché, bisogna dirlo onestamente, l’accensione anticristiana, pure ammettendo che i fatti narrati siano verosimili, conduce il regista a raffigurare i cristiani come degli invasati (vedi Ammonio, monaco sdentato e fuori di testa).
Brutto perché imita il modello hollywoodiano (il film è stato doppiato in lingua inglese per propinarlo ai figli dei Padri Pellegrini che di persecuzioni e uccisioni di indiani sono esperti eredi di Cirillo e non vanno tanto per il sottile in questioni di filologia classica).
Brutto perché ha cucito sulla affascinante Rachel Weisz un vestito che poco si addice all’attrice, altrimenti seducente, per farne nientemeno che una vergine martire, attribuendole in dote tre maschi cascamorti, dei quali uno solo pare sia realmente esistito (l’allievo e poi prefetto Oreste), laddove Sinesio è un intruso storico e lo schiavo Davos una pura invenzione mirante a servire un finale, la lapidazione di Ipazia, in cui l’uomo, prima che la filosofa sia uccisa, la soffoca perché quella non debba soffrire (in realtà, è accertato che Ipazia era sola quando fu scorticata viva con i gusci delle ostriche).
Brutte le musiche di Dario Marianelli che imperversano con note improbabili, quando da tempo sono a disposizione (vedi Mario Panagua e il suo Ensemble “Musica Antiqua”) trascrizioni di inni e canti coevi; senza dire che l’aulòs non è un doppio piffero come si vede nel film.
Alejandro Amenábar, regista altrove sensibile e raffinato (vedi le atmosfere goticheggianti alla Henry James in The Others e il notevole Mare Dentro) prende una cantonata con questo polpettone.
Non so quali pericoli possa rappresentare per i vigilantes del governo in carica o per la pervasiva chiesa ratzingeriana; so quale pericolo possa rappresentare per il cinema l’approssimativo, scadente film di cartone digitale Agorà che ignora la lezione di ‘educazione’ storica, raffinata di Rossellini, Straub-Huillet, Ejzenstejn con un film pretenzioso e ridicolo: le scene con Ipazia che scruta il cielo e calcola e ragiona per oltre due ore se ha ragione Tolomeo o aveva ragione Aristarco, e scopre il movimento eliocentrico, proprio mentre la folla di lapidatori sta varcando la sua abitazione, è un’aberratio degna della Messalina di Alfred Jarry. Con la differenza che il sommo surrealista prendeva per il culo la storia mentre Amenábar prende quello come storia.
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