Regia di Alejandro Amenábar vedi scheda film
Agora racconta la storia di Ipazia (interpretata da una bravissima Rachel Weisz), filosofa e astronoma che per prima ipotizzò le teorie sulle orbite ellittiche dei pianeti intorno al Sole che solo 1200 anni dopo Keplero avrebbe diffuso nel mondo; visse nella città di Alessandria d'Egitto a cavallo tra il IV ed il V secolo D.C., ne difese strenuamente la storica Biblioteca fino alla distruzione ad opera dei cristiani, e morì per mano dei cristiani parabolani (frangia oltranzista che curava gli ammalati e lapidava gli infedeli), che vedevano nella libertà del suo pensiero e nel suo slancio in favore della diffusione della cultura un concreto pericolo per il loro dominio.
Agora è un film importante, prezioso, magniloquente ed imperfetto. Talvolta pecca di didascalismo o corre il rischio di mettere troppa carne al fuoco, è indubbiamente (e per fortuna) romanzato, con tanto di personaggi inventati di sana pianta, come il fondamentale schiavo di nome Davo, ma prima ancora che un film storico, Agora vuole essere una storia, una storia che parla di libertà di espressione di sopraffazione e di intolleranza, la storia di una donna libera che scelse di morire pur di non sottostare ad un credo religioso usato (come sempre) da chi detiene il potere per mantenerlo e controllare chi a quel potere è sottomesso. Non c'è, nei caratteri dei personaggi, una rigida distinzione: non sono tutti brutti e cattivi i cristiani come non sono tutti stinchi di santo i pagani. Sono solo essere umani, e in quanto tali soggetti a desideri paure e ricatti: proprio a ricordarci questo serve la figura di Davo, schiavo di Ipazia in principio e di lei segretamente innamorato, una volta libero passa con i cristiani parabolani non smarrendo per questo l'ammirazione l'attrazione ed il rispetto per l'ex padrona, ma trovandosi di fatto impossibilitato a manifestarli pubblicamente per via delle distanze imposte dalla propria (sincera) scelta religiosa. Ciò che preme ad Amenábar è esattamente questo: mostrare, attraverso la storia di Ipazia, i meccanismi che portano inevitabilmente la religione ad essere strumento non di unione bensì di divisione (e conseguente violenza). Ed è un discorso che va ben al di là del fondamentalismo. Quando le viene chiesto in quali dèi crede, Ipazia risponde «Io credo nella filosofia», firmando di fatto la propria condanna a morte. Quando il vescovo Cirillo (poi fatto santo) decide di scagliarle contro l'anatema definitivo lo fa attraverso la misoginia e la virulenza di scritture ancora oggi considerate sacre. Il vescovo Sinesio (di lei ex allievo), pur non essendo una cattiva persona, è sicuro di quello che dice quando persuade il prefetto Oreste (anche lui suo ex allievo, e di lei, fino ad allora, unico amico vero, convertito al cristianesimo per mera convenienza politica, quindi per ricatto) a voltarle le spalle appellandosi alle stesse misogine parole sante. Parole ormai obsolete che però ancora campeggiano sui testi di quel libro considerato sacro, che hanno fatto dei morti e ne faranno ancora laddove si continuerà a rifiutare la conoscenza e l'analisi in nome di pre(con)cetti oggi superati dal tempo e dai progressi della cultura e della scienza. «Voi non potete avere dubbi, io devo» dice Ipazia a Sinesio ed Oreste quando capisce di essere ormai rimasta veramente sola; ed è qui il nodo del discorso: a questa frase di Ipazia, alla sua visione del mondo fatta di quesiti cui cercar risposta, all'ampiezza di vedute di una persona veramente libera il regista affida il proprio attualissimo monito: perché oggi come allora non esiste dio che giustifichi il sacrificio di un essere umano; e perché oggi come allora la scelta è tra usare la propria testa e dubitare, oppure rispondere presente senza farsi domande al credere obbedire combattere di chi, dall'alto di un pulpito, (ab)usa (del)la credulità popolare con fini ben più bassi della salvezza delle anime. E alla fine della danza ha ben poca rilevanza che questo o quell'evento o dialogo o personaggio sia stato aggiunto od inventato. Quello che conta è mettere in evidenza le dinamiche che portano sistematicamente la superstizione e i suoi aberranti derivati a simili eccessi e degenerazioni, e Amenábar lo fa trattando una volta per tutte la religione per quello che è, ossia un'inossidabile macchina generatrice di odio. E la magniloquenza da molti criticata è in realtà doverosa e perfettamente in linea con il messaggio: l'abbondanza di riprese dall'Alto sta lì a metà tra il retorico e l'ironico, a mostrarci gli uomini per ciò che sono, un misero ingranaggio, un (inumano) gregge, un esercito di formiche in grado di far molto male se pilotato in direzione opposta a quelle della ragione e della tolleranza.
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