Regia di Alejandro Amenábar vedi scheda film
Agora arriva nelle nostre sale con il solito codazzo polemico che accompagna puntualmente i film che avanzano pretese di verosimiglianza storica. Poiché tutto in questa buia terra di mezzo viene strumentalizzato per un fine politico di parte senza alcuna razionalizzazione, anche un’operazione ridicola come “Il codice da Vinci” di Ron Howard ha avuto l’onore a suo tempo di essere esiliata nella troposfera degli indesiderabili, stigmatizzazione che per la curiosa legge del contrappasso ne provocò un fenomenale successo.
Oltre lo sguardo torvo della commissione episcopale che imparata la lezione aveva preferito uno sdegnato silenzio piuttosto che la solita sonora reprimenda, un manipolo di esperti della distribuzione cinematografica ne aveva ritardato l’uscita con complice unità di intenti perché ritenuto troppo noioso per il pubblico italiano. Ricordo che anche il film “The Road” di John Hillcoat tratto dal bellissimo commovente omonimo romanzo di Corman Mc Carthy, vincitore del premio Pulitzer nel 2007, ha tuttora un abissale ritardo nella programmazione poiché ritenuto, dai soliti esperti, troppo deprimente. Sempre per il pubblico italiano. Meno male che c’è chi pensa per noi. Alla fine del IV secolo in Alessandria d’Egitto, la filosofa e astronoma Ipazia venne trucidata dalla setta parareligiosa dei “parabolani” , i cristiani guerrieri di Dio sobillati dal Vescovo Cirillo. All’ elevazione sociale, intellettuale e culturale dei pagani dell’avamposto orientale di un Impero Romano ormai in evidente collasso si sostituirono i sempre più numerosi cristiani che liberati dalle catene e usciti dalle arene frequentate dai leoni grazie alla lungimiranza dell’Imperatore si posero come primi interlocutori di Dio, possessori della verità, infarciti di una profonda ignoranza, corredata da una capace dose di violenza giustificata dai nobili motivi che produssero prima la conquista di tutto il mondo conosciuto, più massacrando che convertendo, per farlo poi scivolare nel periodo più buio che la storia ricordi: il Medioevo.
E’ questo che Amenàbar mette in scena in Agora: la fine dell’epoca luminosa della razionalità, del pensiero scientifico e del progresso sociale in favore dell’osservanza ossessiva di dogmi e del suo corredo di cieco fanatismo.
La storia del mondo antico finisce quando i cristiani bruciano la biblioteca di Alessandria, la più grande del mondo sostituendo la conoscenza con la fede. Quella fede che non ammette discussioni e che trova l’ unica ragion d’essere solo nella sua nemesi. Senza un nemico il fanatismo muore.
Fin qui tutto bene, l’argomento è ricco, interessante, meritevole di approfondimento.
Solo che sembra di assistere ad una puntatona bulimica di Ulisse: il piacere della scoperta e ti aspetti da un momento all’altro sbucare da dietro un colonnato della biblioteca o da un carretto di frutta dell’Agora (la piazza-fulcro della società del tempo) il facciotto sorridente di Alberto Angela che spiega, inserito in uno scintillante Chroma – key come erano fatte le vesti dei “parabolani” proprio mentre un cristiano difensore della fede sgozza un pagano con una roncola.
La volontà di coniugare l’impossibile storia d’amore tra Ipazia e i suoi due pretendenti, la storia di Alessandria con la sovversione dell’ordine costituito e l’azione delle rappresaglie cristiane si impantanano nei dialoghi forzatamente esplicativi e nella condizione divulgativa delle scoperte di della filosofa relative all’astronomia così che l’attenzione inevitabilmente scivola dal film al suo contenuto didattico.
La ricostruzione di Alessandria ha gli stessi pregi e gli stessi difetti di ormai tutti i film storici contemporanei. Benché siano state usate scenografie reali il digitale che le ritocca offre una perfezione iperrealista nella rappresentazione degli ambienti ma con una freddezza emotiva che disinnesca il senso di ciò che mostra, quasi che sarebbe meglio tornare al caro peplum anni 50 con le scenografie orgogliosamente in polistirolo corredate da qualche faccia da cinema di genere tagliata con l’accetta.
Alejandro Amenabar avvezzo alle storie intimiste che l’hanno reso celebre come il famoso “Il mare dentro” non si trova evidentemente a proprio agio nel governare un mastodonte come Agora, aldilà della passione e dell’impegno profuso tutto rimane impastato nel più classico del polpettone pieno di tante cose nessuna delle quali portatrice di un sapore deciso.
Ad un attento cinefilo le diatribe di piazza tra i cristiani e i pagani sulle manifestazioni dei rispettivi Credo fa tornare alla memoria i surreali codazzi di fedeli alla Zucca o al Sandalo di Brian di Nazareth dei geniali Monty Python mentre ripresa iniziale della terra vista dallo spazio il cui sguardo scivola verso Alessandria d’Egitto mostrando la piccolezza degli avvenimenti terreni al cospetto dell’immensità del cosmo ricorda “Burn After Reading” dei fratelli Coen il cui sguardo iniziale puntava a caso un luogo della terra per mostrarne l’assurda deriva dei suoi abitanti. Follia, stupidità, violenza gratuita l’ellisse temporale che unisce Agorà ai Coen non cambia lo stato delle cose del genere umano, proprio un ellisse cercava febbrilmente Ipazia nelle sue congetture sul moto dei pianeti e tramite questo una ragione da contrapporre allo strapotere della religione, declinata nel suo peggiore manifestarsi.
Amenàbar ha un pietoso rispetto della sua eroina, martire assimilabile a Gesù e alla sua Passione, algida e candida nella sua purezza intellettuale viene posta come baluardo verso i rozzi, sporchi e di nero vestiti “parabolani” cristiani depositari di un nulla cosmico protetto dalla fede che li soverchia. Ma anche Rachel Weisz/Ipazia per quanto brava così costretta ad impacciarsi in monologhi filosofico-scentifici risente della bulimia produttiva di tutta l’operazione e non riesce al pari degli altri attori – alcuni clamorosamente fuori parte – a rendersi pienamente convincente.
Alla fine lo sguardo si ritira di nuovo da Alessandria e sempre di più si allontana fino allo spazio cosmico, un ritrarsi che non è la soggettiva di un Dio sconfitto, è solo la silente constatazione della non esistenza di un qualsiasi Dio e della pacata inutilità di questo film.
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