Regia di Alejandro Amenábar vedi scheda film
La cosa più bella, più preziosa, più ammirevole di questo Agora (la piazza, il nucleo pulsante delle tensioni, della vita e della morte, e un cerchio imperfetto), è lo sguardo: lo sguardo dignitoso, rispettoso, intenso del regista Amenàbar, coincidente con quello della sua protagonista.
Uno sguardo siderale: perché quando le urla, i pianti, gli scoppi di rabbia si ripercuotono nell’universo, si espandono fino alle stelle, perdono consistenza; si dissolvono, a quella distanza eterna e immutabile, lassù.
Uno sguardo da entomologo: quando quell’infinità di punti neri traballanti, infiniti, implacabili, si riversano nella biblioteca, vibrano e tremolano come insetti, mosche, uguali fra loro e nella loro follia.
Lo sguardo del regista, lo sguardo di Ipazia: distaccato, etereo, ancora più in alto, al di là di quest’“atomo opaco del Male”.
Il primo a parlare al grande pubblico della filosofa, astronoma, scienziata ma soprattutto grande essere umano Ipazia di Alessandria è stato Umberto Eco nel suo Baudolino, datato più di dieci anni fa. Poi articoli di giornali, citazioni illustri (Piergiorgio Odifreddi la nomina in un’intervista sì e una no), e ultimamente l’ha elogiata anche Margherita Hack. Ma il grande passo (non più lungo della gamba, ed è tutto a suo favore) lo ha compiuto Alejandro Amenàbar facendo finalmente della sua vicenda mutilata dalla Storia, un film, e un film a tutto tondo: evita i toni didascalici e piatti, schiva i rischi dell’agiografia e della eroina invasata, non si tira indietro in quanto a mostrare il vero e lo scomodo ma non è mai compiaciuto, e soprattutto fa della Storia una pura ‘storia’, puro piacere del racconto visivo ed emotivo; e inserisce la figura, affascinante, intensa, “libera” della incredibile tuttologa che “crede nella ragione e nella filosofia” all’interno di sentimenti, emozioni, passioni umane vive e ardenti quanto la carne e il sangue: la vicenda parallela dello schiavo Davo, per quanto romanzata, non poteva essere più dolorosa e realistica.
In mezzo, sequenze che volano altissimo: ad un certo punto la turba dilaga, dilaniandola, per la sterminata biblioteca, e le fiamme e la furia, ormai indistinguibili, imperversano: ed ecco che la telecamera, fino a quel momento invisibile e limpida cantastorie per le vie fustigate dalla sabbia e dal vento di Alessandria, si capovolge, e cambia prospettiva visiva sul massacro, per la prima e unica volta materializzandosi come ‘mezzo’ lì, presente, come se la stortura di quell’immagine e di quella ripresa volessero gridare, mostrare, far fremere e sentire tutta l’indignazione, tutta la stortura dell’atto. E come se, anche rifiutandola, guardandola da un altro punto di vista, non possa in alcun modo negarla, fermarla.
La distruzione della cultura, la distruzione di un’epoca, la distruzione di storie, la distruzione di una storia (nella Storia) di una donna. “E’ un cristiano”, e scorre sangue. “Il signore è con noi”, e il sangue scorre. La religione, instrumentum regni, l’uso che se ne fa e il potere che incarna, tutto è messo al muro: il fanatismo, l’insensatezza, le domande, in un racconto lacerante più che mai attuale e scioccante.
E c’è poi, da ultimo, un finale che, poetico e doloroso nel suo silenzio e nel suo mischiarsi di sguardi, è un dono, un atto di pietas e di amore nei confronti di questa meravigliosa donna.
Da vedere, subito.
“Voi non potete avere dubbi. Io, devo”.
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