Regia di Robert Guédiguian vedi scheda film
Grazie a France Odeon, neonato minifestival risorto quest’anno sulle ceneri del ben più blasonato e meritorio France Film Festival purtroppo ormai definitivamente defunto per mancanza di risorse, ma che per oltre vent’anni aveva fatto di Firenze la più prestigiosa vetrina del cinema francese in Italia, ho potuto visionare, qualche settima fa, questo L’armée du Crime, ultima interessante opera di Robert Guédiguiam passata, sia pure fuori concorso, anche dal Festival di Cannes di quest’anno, e adesso in programmazione (fra qualche inevitabile polemica) proprio sugli schermi francesi.
Un film che quasi certamente nelle nostre sale non troverà la via della distribuzione (un altro significativo specchio dei tempi bui che stiamo vivendo) e quindi l’occasione è stata particolarmente ghiotta (irrinunciabile, direi) per verificare il “miglior stato di salute” della cinematografia media francese rispetto a ciò che si riesce a fare (che è davvero molto poco) qui in Italia, salvo rarissime eccezioni. Ci sarà mai (possiamo nutrire qualche speranza al riguardo?) qualche distributore illuminato che si premurerà di far “girare” anche da noi questo film certamente non eccezionale, ma importantissimo per il messaggio che veicola e per le riflessioni che ci costringe a fare? perché a mio avviso non è solo di passato che si parla: i problemi che tratta, le lacerazioni che toccano le anime di quegli uomini di fronte alla necessità di agire e di creare morte, sono attualissime, si ripetono perpetuandosi amplificate (e poco rispettate) nelle guerre di “resistenza” che si consumano, oggi persino più di ieri, in molte – troppe parti del mondo, lasciandoci indifferenti e inerti come mai prima d’ora. Sarà possibile che ciò avvenga o è chiedere troppo?
Già, perché mentre noi stiamo ancora a menarcela con Il sangue dei vinti, altrove si fanno serie riflessioni anche critiche sulle pesanti responsabilità “collaborazioniste” di un passato ormai lontano, ma da tenere comunque sempre in evidenza per conservare viva la memoria di ciò che è stato, e soprattutto mantenere nette le distinzioni comportamentali verso le quali, oggi più che mai, credo non sia possibile fare “di ogni erba un fascio” per quella specie di revisionistica riabilitazione collettiva (che è poi una vera e propria mistificazione storica) che sta dilagando con sempre maggior vigore non solo nell’Italietta post-fascista della nostra contemporaneità berlusconiana.
Guédiguiam è un regista marsigliese di origini armene molto attivo in Francia, e abbastanza conosciuto anche da noi almeno nel circuito d’essai, poiché da lì sono passate in sala alcune opere (una piccola parte) fra quelle più significative che ha realizzato, tutte intrise di forte impegno sociale e civile di artigianale e robusto impianto. Un tipo di cinema il suo, che credo sarebbe piaciuto moltissimo ad Aristarco e ai critici della sua scuola, insomma, visto che può oggettivamente essere catalogato in quella corrente (o categoria che dir si voglia) che privilegia i contenuti rispetto alla forma (che non è comunque mai trascurata o sciattamente inerte, anche se non può essere considerata certamente “d’avanguardia”).
Lui è dunque un regista che “sceglie” di essere sempre incisivamente chiaro, rigoroso e concreto, che sfrutta al meglio proprio in questa direzione, le sue indubbie, spiccate doti di narratore e le utilizza per “disegnare” - spesso quasi in punta di penna - quadretti sulla marginalità periferica del suo paese, che è una realtà che gli sta particolarmente a cuore trattandosi di un francese fiero delle sue radici mai disconosciute e che in questo modo diventano il suo “rivendicativo” patrimonio genetico. Di questo parlano per esempio sia il film che lo ha rivelato qui in Italia, Marcus e Jeannette del 1997 (favola realistica che narra una delicata storia d’amore che è poi un tenero racconto che mescola commedia e melodramma fra immigrazione e degrado, ambientato tra i poveri che abitano il quartiere popolare di Estaque a Marsiglia, una contestualizzazione “geografica” che qui è molto più di una cornice, poichè diventa l’elemento propulsore della storia, la materia indispensabile per fornire il quadro asciutto e corposo, totalmente privo di retorica - e soprattutto scevro da tentazioni di demagogia populista sempre in agguato in queste circostanze - delle “solidali emarginazioni suburbane” su cui si concentra il suo affettuoso sguardo) che i successivi (parlo sempre e solo di ciò che è passato in Italia però) Al posto del cuore del ’98 (singolare e ardita trasposizione in terra di Francia - ancora Marsiglia e “quel” particolare quartiere che lui conosce molto bene - del romanzo Se la strada potesse parlare dello scrittore afro-americano James Baldwin, meglio conosciuto per opere come La prossima volta il fuoco e La Camera di Giovanni e che meriterebbe indubbiamente una riscoperta e una rivisitazione più massiccia, capace di dissipare la pesante coltre di oblio che l’avvolge e che lo spinge inesorabilmente verso il dimenticatoio: centrale il dialogo interrazziale e la solidarietà, oltre che, ancora e sempre, “l’orgogliosa fierezza e la dignità di appartenere al proletariato urbano”), À l’attaque! del 2000 (una specie di apologo realizzato tenendo a suo modo conto della lezione “straniante” del teatro Brecht, e forse fra tutte le sue opere - questa è la sua decima fatica, ma solo la terza che noi abbiamo potuto vedere - quella più programmatica e “discutibile”), e La ville est tranquille sempre del 2000, che è invece e certamente fra le sue migliori prove, la pellicola con la quale ha il coraggio di affrontare “seriamente” la crisi ideologica della sinistra e l’aggressivo avanzamento di una destra sciovinista e sempre più razzista (lo fa con un pessimismo di fondo fatto di solitudini disperate e di scacchi sentimentali magistralmente resi dai “suoi” attori, fra i quali si distingue la prova maiuscola di Ariane Ascaride, per altro sua compagna di vita). Possiamo considerare invece Marie-Jo e i suoi due amori (2002) un film di transizione, quello che lo aiuta ad allontanarsi dal “natio borgo” per esplorare le nuove strade suggerite dalla sua ispirazione in movimento, e – contemporaneamente .- a sfumare un poco le tematiche socio-economiche che sono state il motivo conduttore delle storie precedenti e qui lasciate decisamente a margine, per concentrarsi invece sulla straziante dialettica contraddittoria dell’amore e dell’innamoramento. Ne esce un’opera tutt’altro che disprezzabile, ma più discontinua e zoppicante, forse un pò troppo prolissa e compiaciuta, ma fondamentale per la “crescita” che lo porterà poi a realizzare nel 2005 la pellicola della raggiunta maturità stilistica (e politica), che è poi anche la più conosciuta a apprezzata. Mi riferisco a Le passeggiate al Campo di Marte che, forte di una poderosa opera registica “invisibile” e discreta in apparenza, ma profondamente incisiva nel risultato pratico, dipinge in immagini un poliedrico, tenero ritratto sospeso fra pubblico e privato, ma tutt’altro che agiografico, di un politico dalla statura monolitica di un Mitterand, del quale ce ne rimanda a tutto tondo una “interpretazione” sfaccettata che non dimentica di soffermarsi, pur senza retoriche veemenze, anche su un passato non del tutto adamantino, denso di non rimosse responsabilità che ombreggiano sulla sua figura di statista, rappresentato dalla compartecipazione personale nei primi anni ‘40 e prima di passare nella resistenza antifascista, col regime collaborazionista di Pétain (il disonorevole “Governo di Vichy), un’esperienza verso la quale è stato sempre troppo ambiguo nel respingere le accuse più infamanti, e quindi incapace di dissipare del tutto le “pesanti nubi” delle responsabilità oggettive che si addensano ancor oggi su di lui). Credo infatti che proprio la conseguente riflessione sui tempi infami di Vichy, abbia poi fortemente influenzato la successiva scelta che ha indotto Guédiguiam a scrivere e realizzare proprio il film di cui intendo parlare in questa circostanza, che esprime a mio avviso la chiara volontà di soffermarsi con maggiore profondità di pensiero, su un momento così tragico e buio, senza inutili deferenze timorose nei confronti di tutti quei francesi poi perfettamente reinseriti nel tessuto sociale della nazione nemmeno senza troppa personale vergogna, che scelsero di mettersi al servizio (in varia misura e modo) del nazismo. e decisero di conseguenza di “assecondare e facilitare il lavoro del nemico occupante”, macchiandosi per questo di terribili crimini contro i propri fratelli. E’ certamente questa la molla che lo ha risvegliato, inducendolo a ritornare a quegli anni per riportare di nuovo in primo piano uno degli ultimi eroici esempi della resistenza francese, che ha una caratteristica peculiare molto importante, come vedremo in seguito, che sta particolarmente a cuore al regista e che rappresenta certamente un’ottima contrapposizione dialettica fra l’abnegazione e il tradimento, visto che furono tantissimi a scegliere quella strada più comoda e sicura, davvero una grossa fetta di francesi d.o.c. (non solo notabili, ma anche comuni cittadini) che più che adagiarsi, schierarsi apertamente dalla parte del nazismo, ne diventarono la longa mano operativa sostituendosi molto spesso proprio nel lavoro più “sporco” e detestabile (quello della delazione e della tortura per esempio), la motivazione che gli ha fatto sentire il dovere di “ricreare” le distanze fra il “giusto” e la “disumana perversa convenienza”, proprio al fine di “non dimenticare” mai, ma al contrario, di “ricordarsi sempre e comunque di ricordare”.
L’armée du Crime è proprio questo, e il regista assolve con partecipata commozione al compito che si è prefisso. Come è nel suo stile, sempre pacato e accorto, niente proclami urlati nemmeno questa volta, niente megafoni amplificativi perché non ce n’è bisogno: il pesante, definitivo giudizio sul collaborazionismo francese, sulle vergognose conseguenze di quegli orrendi crimini, sono di una tale portata, da non consentire nemmeno di individuare possibili, tardive attenuanti “consolatorie”, emergono chiare e lampanti, semplicemente appoggiandosi sulla linearità (anche narrativa) di un racconto che è la reale trasposizione solo leggermente “romanzata” di una realtà storica inoppugnabile e certa e quindi “irribaltabile” (e forse per questo ancor più disturbante per chi vorrebbe mantenere quegli scomodi scheletri chiusi negli armadi e seppelliti sotto la coltre della rimozione).
La storia è tutta qui (ancora una volta raccontata dalla parte degli esuli, delle minoranze esiliate, dei fuggiaschi che vedevano nella Francia la speranza di quella libertà che le loro patrie di origine non erano più in grado di garantire, una tradizione secolare durata a lungo, e che solo adesso nella contemporaneità dei gemelli diversi – Berlusconi-Sarkozy – vede mostrare le prime desolanti crepe di una involuzione preoccupante e pericolosa che rende quella terra meno sicura e accogliente di una volta (certamente non più “mitizzabile”). Dunque Parigi come centrale propulsiva dell’accoglienza, il paese d’elezione dove da tempo immemorabile hanno trovato asilo e solidarietà i rifugiati politici, i perseguitati provenienti da ogni parte del mondo. Anche negli anni ’40 fu così, né è ovviamente colpa dei francesi in toto, se furono invasi a loro volta e non riuscirono a garantire fino in fondo la salvezza auspicata: i “peccatori”, i colpevoli, furono però fra loro numerosi, identificabili in coloro che con la loro opera compiacente, le loro soffiate “sospettose”, contribuirono a “perdere” molti di questi misconosciuti eroi transfughi dall’orrore per consegnarli nelle mani dei sicari del governo Pétain che li torturarono e uccisero, proprio perché queste minoranze di fuoriusciti assetate di libertà e giustizia, avevano contribuito a loro volta e in prima persona – diventando leggendari - a portare avanti tutti quei necessari atti di resistenza attiva (e questo film lo testimonia con accorata adesione, raccontando in un lungo flash-back tutti gli avvenimenti relativi a quei fatti, partendo dalla fine, così da non creare false illusioni consolatorie e far subito “sapere” al pubblico come purtroppo si conclusero le cose, e creare conseguentemente una più palpitante e diretta partecipazione emotiva da parte degli spettatori in sala).
E’ uno degli ultimi episodi di resistenza attiva dunque, questo, che riguarda e coinvolge in prima persona una armata di futuri e certi “martiri” formata da armeni, ungheresi, polacchi, rumeni, italiani, spagnoli, ebrei e guidata dal poeta armeno Missak Manouchian, tutti determinati a combattere a qualunque costo, per liberare la Francia che amavano, identificata nella patria dei Diritti Umani appunto (un valore “fondante e irrinunciabile, da difendere e preservare) per farla diventare davvero anche la loro terra. Lottarono e agirono in clandestinità, a rischio delle loro vite, uccisero a loro volta, diventando così a pieno titolo dei veri e propri eroi. Gli attentati di questi partigiani stranieri bersagliarono senza tregua i nazisti, facendo loro subire ingenti, importanti perdite attraverso una serie di operazioni dinamitarde e di rischiose azioni individuali. Da quel momento, la polizia francese, scornata e desiderosa di far bella figura col “padrone” si scatenò come mai era successo prima, utilizzando pedinamenti, delazioni, ricatti e torture, dando inizio a una caccia spietata e priva di regole per essere lei a potersi vantare di essere stata capace di portare dentro la saccoccia la selvaggina. Furono tutti identificati e catturati, traditi persino da uno dei loro capi che non fu così eroico da resistere alla pressione, una volta intrappolato nella rete, come sarebbe stato necessario (nemmeno di “tali teste pensanti” ci viene qui offerta una esemplare, adamantina rappresentazione, concentrate spesso solo nella “sollecitata” ricerca dell’azione eclatante ad ogni costo, quella che dà prestigio e risonanza, interessate più che all’incolumità di coloro che le azioni le dovevano compiere davvero, “all’importanza propagandistica dell’effetto”).
Ventidue uomini e una donna (l’intero gruppo) venero così arrestati, torturati (nessun altro parlò però, nonostante le terribili prove che dovettero subire per allargare ulteriormente le retate) condannati a morte e trucidati nel febbraio del 1944. Con un'ultima operazione di propaganda denigratoria, vennero poi presentati al pubblico ludibrio delle folle come una compagine terroristica, una vera e propria "Armata del crimine", e i loro volti stampati sul fondo rosso dei manifesti attaccati e sbeffeggiati sui muri di tutte le città del paese, diffusi con meticolosa capillarità per servire da “monito” e da esempio.
Ma nonostante l’opera calunniosa ed offensiva tesa ad addossare al loro folle operato la responsabilità della morte di quei pochi civili presunti “innocenti”, che gli attentati si portarono inevitabilmente dietro (come sempre accade, è il potere a tentare di farci percepire queste necessarie azioni fatte in nome della libertà e della giustizia, come vili e spregevoli atti: succede ancora oggi in paesi più lontani, e noi che non conosciamo i fatti, che non ci siamo dentro, ci permettiamo scioccamente persino di lasciarci tentare dal giudizio “senza saperne a sufficienza” e conoscere davvero come stanno le cose lanciando anatemi e condanne analogamente ingiuriose), questi immigrati morti per la liberazione della Francia e del mondo, sono poi entrati nella leggenda, dei veri e propri eroi da ricordare e “venerare” come meritano.
Ecco: lo ripeto per l’ennesima volta: il film racconta questa bella e tragica storia, soffermandosi anche sul “privato” (gli amori, le passioni, la vita insomma alla quale ciascuno è disposto a rinunciare per raggiungere l’obiettivo della vittoria). La ricostruzione è accurata, le psicologie attendibili, il ritmo è serrato, una vera e propria docu-fiction piena di empatia. Nonostante qualche scivolata nell’ovvio che poteva essere evitata, il film tiene magnificamente fino in fondo... e quando alla fine sullo schermo appare davanti ai nostri occhi quel manifesto rosso “denigratorio” e infamante, con le facce originali di coloro che sono “davvero morti” per la causa, sulle parole amare del testamento (equiparabili a quelle delle lettere dei nostri condannati a morte per la resistenza che se qualcuno ha voglia di farlo, può forse ancora recuperare nel volumi a suo tempo stampati dal “comunista” Einaudi) che è poi la lettera che Missak Manouschian manderà alla moglie prima dell’ esecuzione, con la quale la esorta, una vota ritornata la pace, a rifarsi una vita, a fare con un altro “quel” figlio che loro non avevano potuto concepire, per consegnargli il frutto maturo della ritrovata libertà, la commozione e la rabbia sono palpabili poichè ci ricordano indirettamente anche le nostre negligenze, quel non essere stati capaci di tener viva tutta intera la “memoria” per tramandarla intatta ai nostri figli e ai posteri (perché in queste cose al di là dell’ufficialità, tutti avremmo dovuto fare meglio la nostra parte) se adesso siamo nuovamente al punto in cui ci troviamo e quei valori una volta certi, sono da tempo ritornati nella pattumiera,.
Gli interpreti sono tutti bravissimi e così numerosi che è impossibile davvero citare tutti. Mi limito allora a ricordare le sofferte, umanissime prove di Simon Abkarian e Virginie Ledoyen (Manouchian e sua mogie) e quella ugualmente intensa – seppure questa volta in una parte un pò più defilata - di Ariane Ascaride, ancora una volta accanto all’uomo con il quale divide la sua vita e la passione artistica delle storie che racconta.
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