Regia di George Miller vedi scheda film
Il mondo post-apocalittico di Mad Max, da sempre è stato il rifugio di George Miller nei momenti di difficoltà artistica e stanca vena creativa.
Nelle distese infinite desertiche, il cineasta trova il luogo ideale, in cui mettere in scena il suo stile “wired” virato all’eccesso sopra le righe, a meno che non cambi lui stesso.
Il mega successo di Interceptor – Il Guerriero della Strada (1981), aveva fatto drizzare le antenne di Hollywood, che stavolta convincono il cineasta con il progetto collettivo Twilight Zone – Ai Confini della Realtà (1983), assieme a grandi nomi come Steven Spielberg, John Landis e Joe Dante.
Il suo segmento tratto da un racconto di Matheson, sviluppa degnamente il lato grottesco ed inquietante del suo stile cinematografico, ma risulta troppo ancorato all’idea di mero omaggio alla serie tv anni 60’. Il naufragio al box office e presso la critica – non secondario è l’incidente sul set riguardante l’episodio di John Landis, che comprometterà la sua successiva carriera -, spinge un leggermente riluttante Miller a progettare un terzo capitolo di Mad Max, nonostante la morte per incidente in elicottero di Byron Kennedy, amico del regista, nonché produttore dei precedenti due capitoli. Il non grande entusiasmo, si percepisce anche dalla volontà del cineasta nel farsi affiancare alla regia da George Olgive, un regista televisivo, che si occuperà delle scene di raccordo, lasciando invece la gestione coreografica e la regia delle scene d’azione a Miller.
Pur girato per la gran parte a Coober Pedy, città mineraria australiana ed altre zone desertiche dello stato, la produzione in “loco”, non basta a proteggerlo dalle derive commerciali, che appestano il film lungo il suo sviluppo, cominciando dal PG-13, al posto del Rated-R che caratterizzava i due precedenti capitoli.
Mad Max: Oltre la Sfera del Tuono (1985), dei quattro capitoli della saga, risulta essere indubbiamente, il più commerciale e leggero nelle atmosfere, seguendo le mode del momento, sin dai titoli di testa, con una canzone anni 80’, che poco c’entra con le atmosfere cupe e drammatiche della saga, dichiarando a sua natura di sfruttamento di marketing del nome di un personaggio, che viene smussato di tutte le sue ambiguità e sgradevolezze.
Del vecchio Max Rockatansky, oramai ne è rimasto un vago profumo. La versione modaiola anni 80’, con quel suo look “tamarro” dai capelli lunghi con cui fa ingresso in scena e la parlata loquace, spazza via l’indecifrabile anti-eroe precedente, che per lo meno nei primi 40 minuti, riesce ancora a reggere il tutto, in virtù del carisma da duro di Mel Gibson, a cui bastano poche inquadrature per accentrare su di sé la scena.
In questo viene aiutato dall’ambientazione di Bartertown, insediamento urbano costruito nel deserto, la prima città sorta dopo l’apocalisse nucleare, di cui siamo a conoscenza nella saga.
I toni western, lasciano spazio a rimandi al genere peplum – l’arena del Tunderdome ed il look Aunty Entity (Tina Turner), mezza gladiatrice e mezza amazzone, a capo di tale luogo – e alle atmosfere steampunk, specie nel ritratto dato “all’underword”, il sottosuolo di Bartertown, in cui si ricava l’energia necessaria a far funzionare la città, dallo sterco dei maiali.
Un insediamento urbano fondato letteralmente sulla “merda”, una satira di Miller sull’energia, da sempre tematica cardine della sua saga, che pur ambientata nel futuro, in realtà ha molti rimandi al presente, specie poi nella condizione di sfruttamento a cui sono sottoposti i lavoratori del sottosuolo, a cui quelli della superficie devono tutti i loro agi e comodità.
Di tale situazione il “nano” Blaster (Paul Larsson), ingegnere a capo di tale centrale produttiva, ne sta sempre più venendo a capo, minacciando gli abitanti della città di embarghi energetici, che significherebbero la fine della città. Ma toccarlo non si può, in quanto è spalleggiato dal gigante Master, un essere dalla forza abnorme, che protegge chiunque si metta contro Blaster, formando di fatto un’accoppiata perfetta tra cervello (Blaster) e corpo (Master).
La satira di Miller colpisce nel segno, evidenziando come le sfere politiche della città, in realtà fondano il loro potere su chi sta sotto di loro, confidando sulla non presa di coscienza da parte di costoro sulla loro effettiva importanza ai fini dell’intero ingranaggio produttivo. Se in Master-Blaster non vi fosse la mera volontà di contrapporsi ad Aunty, in merito all’effettivo comando della città, potrebbe sviluppare per sé e l’intera altra manovalanza, una coscienza di classe, atta a rovesciare il sistema, sancendo l’effettivo dominio dei lavoratori sulla città, visto che è la loro attività a mandarla avanti. Alla luce di ciò, il vero antagonista risiede nella figura di Aunty Entity, anche se in realtà pur agendo con mezzi errati, i suoi fini sono giusti, essendo riuscita tramite la fondazione di Bartertown, a permettere un possibile ritorno verso la civiltà; senza contare la scelta innovativa del regista nel 1985, di scegliere come capo politico di una comunità una donna, che governa in virtù delle sue doti intellettive e carismatiche.
Nessun cattivo vero e proprio in sostanza, eppure il “divide et impera” tra le parti in gioco sussiste sempre, tanto da dover sbloccare tale situazione, facendo ricorso alla lotta nel Tunderdome in cui “due combattono, uno vive”.
Miller scatena il suo estro di regista d’azione, nelle acrobazie aeree, dovute alle corde elastiche, a cui sono legati due sfidanti, sbizzarrendosi in coreografie dal grande impatto visivo, in cui eleganze e brutalità delle armi, danzano in un’armoniosa composizione di salti, mosse e fendenti.
Questi primi 40 minuti interessanti ed originali, vengono dispersi in una virata leggera e giocosa, in cui l’anima “spielberghiana” – mi passi l’aggettivo -, emerge in modo preponderante, tramite la figura dei bambini “sperduti”, che vivono in un’oasi sperduta ed isolata, portando tocchi “fantasy” lontani dal mood di una saga, da sempre autonoma ed indipendente in ogni suo capitolo, ma indubbiamente in contrasto con lo spirito nichilista, caratterizzante tutti gli altri capitoli, andando malamente fuori strada, preannunciando una svolta verso il “cinema dell’infanzia”, che caratterizzerà tutto il cinema di George Miller, almeno fino a Mad Max: Fury Road (2015).
La commercializzazione di Hollywood, ha portato alla creazione di un “Mad Max per famiglie”, in cui quasi nessuno muore e dove la martellata violenta rifilata da Max,all’elmo protettivo di Master nel combattimento nell’arena, risulta essere “fuori posto”, in un’opera alla disperata ricerca di un autore, perdutasi nelle vaste distese desertiche.
Tra le dune di sabbia, fotografate con dovuta professionalità da Dan Semler, non si scorge mai un furente inferno barbarico, quanto semmai un’operazione di marketing atta a ripetere sé stessa, in un inseguimento finale mera copia-carbone del precedente, ma de-privato di violenza, grinta e distruzione, concludendosi con un grande interrogativo, che arriva di fatto a renderlo inutile narrativamente.
Il mega budget di 10 milioni di dollari s’è mangiato l’anima oscura della saga, con esiti al box-office deludenti, nonostante tutti gli sforzi per venire incontro al pubblico di massa, che negli Usa ed in Australia accolse l’opera molto freddamente, tanto da far guadagnare a questo capitolo l’etichetta di “pecora nera” del franchising.
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