Regia di Tizza Covi vedi scheda film
Se la periferia come luogo mitico di sentimenti e non come dormitori anestetizzati dagli unhappy hour del dopolavoro, buca ancora lo schermo del cinema italiano con la stessa ferocia di un Roma città aperta, qualche cortocirciuto nella società italica dovrà pur essserci.
Ma partiamo dal principio. Non è ancora domani o meglio conosciuto come La Pivellina, è un film girato in Super 16mm, presa diretta, attori non protagonisti e pedinando i personaggi -metodo di zavattiniana memoria-. Da manuale ha tutte le caratteristiche di un bel filmazzo del Neorealismo, anche forse un po’ troppo ligio alla regola.
Peccato che il film è stato girato nel 2009 da due ex direttori della fotografia, Tizza Covi e Rainer Frimmer, e finanziato da loro stessi grazie alla casa di produzione messa in piedi dai due, “Vento Film”. I premi numerossissimi, che non sto qui ad elencare, hanno permesso la distribuzione.
La trama sta in due righe: una vecchia circense dai capelli rosso fuoco trova una bambina di due anni nel parco, abbandonata. La prende con sè, e ad allevarla per un po’ ci penseranno gli strambalati amici della protagonista. Non pensate ad un film che favoleggia sulla bellezza decadente dei circensi: le loro roulotte sono nel fango dell’area campeggio di San Basilio a Roma, niente sberluccichii o fisarmoniche,i ragazzini vanno a scuola come tutti e si lavora per campà. La pivellina è una bambina di due anni di rosa vestita, occhi grandi e senza pannolini.
Se la mdp ha l’esigenza di instaurare un rapporto così stretto e problematico tra gli attori e lo spazio che li circonda, con zoom e campi lunghissimi, è per interrogare direttamente lo spettatore, senza ricompensare la sua presunzione scopica di onniscenza.
Interrogare in ogni inquadratura lo spettatore vuol dire costringerlo a riflettere continuamente su ciò che vede, e soprattutto su ciò che non vede, nascosto com’è per otto ore al giorno nell’acquario dell’ufficio; non, ancora una volta, anesetezzarlo alla poltroncina del multisala con riflettori da studios. Ogni inquadratura di questa pellicola, dunque, ha quel colore del reale, potente e sgranato, che mancava al Neorealismo di cinquanta anni fa, e in questa Italia, dove tv e realtà si confondono fino al parossismo più grottesco (vedi Vidiocracy), si avverte ancora di più il bisogno morale e necessario di questo Cinema.
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