Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
“Polytechnique” del canadese Denis Villeneuve narra della strage avvenuta il 6 dicembre del 1989 all’Ecole Polytecnique di Montreal che procurò la morte di 14 ragazze per mano di un folle assassino che, avendo maturato un odio incontrollabile nei riguardi delle donne, scagliò tutto il suo rancore represso solo ed esclusivamente contro le studentesse.
Il film è raccontato da tre punti di vista differenti : quello dell’assassino (Maxim Gaudette), la cui furia omicida è preceduta da una lettera testamento in cui spiega che l’odio per le donne è frutto delle conquiste del movimento femminista da lui ritenute un cancro sociale da estirpare, quello di Valèrie (Karine Vanasse), scampata miracolosamente all’eccidio, una ragazza che coltiva il sogno di diventare ingegnere aeronautica, e quello di Jean-Francois (Sèbastien Huberdeau), l’unico ragazzo che, invece di scappare fuori dall’edificio, vi rimane per soccorrere una ragazza ferita. Tre punti di vista per raccontare da tre angolature differenti l’esecuzione sommaria della vita attraverso la fredda esposizione di una violenza insensata. Il fanatismo delirante dell’assassino, il terrore panico di Valèrie e la cosciente incredulità di fronte all’accaduto di Jean-Francois, sono le facce emblematiche restituiteci da un mondo perennemente sospeso tra l’esplosione repentina di un male che cova sotto le ceneri di questioni sociali mai completamente risolte, e l’innocente impotenza di quanti non sono neanche capaci di concepirlo l’accumulo di tanto odio in così poco spazio. Come sembra suggerirci il colloquio che Valèrie svolge per avere l’internato in ingegneria meccanica e a cui viene esplicitamente fatto capire che se vuole far carriera in un regno di maschi deve rinunciare alla possibilità di diventare madre. O come ci mostra la riproduzionedi “Guernica” di Pablo Picasso che campeggia in uno degli spazi della facoltà e che Jean-Francois si ferma a contemplare rapito come avvolto da un attimo di triste presagio circa l’incombente palesarsi della sempiterna gratuità della morte. Sono solo accenni però, che riflettono per qualche attimo una matrice più generale dell’orrore cui si assiste, delle forme di discriminazione sociale mai disinnescate del tutto e che aspettano solo l’occasione più propizia per palesarsi in tutta la loro mortifera vena reazionaria. C’è un prima e un dopo la manifestazione del male, una violenza inaudita che si nasconde negli angoli nascosti della società del benessere e dei segni che rimangono indelebili nei cuori di chi ne è stato innocentemente intercettato. A Denis Villeneuve interessa soprattutto il momento esatto in cui l’orrore si compie, la lucida selezione di un assassino malato e il rumore sordo di corpi squarciati, i colpi che rimbombano con spavalda precisione e i capelli impregnati di sangue. Un bianco e nero glaciale e dei movimenti di macchina capaci di farsi specchio psicologico del misterioso terrore che invade tutto ad un tratto l’edificio universitario, aderiscono più al tentativo di fissare con geometrica precisione il momento esatto in cui un ordinaria incombenza universitaria viene irreversibilmente spezzata per far posto a degli occhi sgomenti d’incredulità, che all’intenzione di volerne ricercare le cause remote. Il tempo e lo spazio sono lacerati da un dolore lancinante che agisce come un inascoltato effetto sorpresa, disarticolati da un indugiare continuo su particolari solo apparentemente insignificanti (su tutti, i tacchi a spillo che Valèrie mette per andare al colloquio e che gli danno particolarmnte fastidio, segno distintivo di una femminilità che, nello stesso momento in cui deve essere ostentata attraverso chiari segni qualificanti, è anche imposta). Il qui e ora vengono immobilizzati al confine del domani, veicolati lungo traiettorie tentacolari fino al palesarsi della faccia peggiore del mondo. Quell’orrore diventa ogni orrore possibile (come il capolavoro di Pablo Picasso) e tutte le ragazze scampate alla furia omicida di un pazzo figlie di un mondo che non smetterà di mietere vittime innocenti. Denis Villeneuve è stato evidentemente mosso dall’urgenza di documentare una delle pagine più nere della storia del suo paese e portare rispetto alle vittime della strage, lo ha fatto con piglio antiretorico, senza intraprendere derive moralistiche e con sofferta e lucida compostezza stilistica.
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