Regia di Joon-ho Bong vedi scheda film
CIAK MI GIRANO LE CRITICHE DI DIOMEDE917: MADRE
Strano il percorso mediante il quale stiamo conoscendo Bong Joon Ho, l’acclamato regista di Parasite.
La Palma d’Oro prima e i 4 Oscar dopo hanno permesso a due delle sue opere più importanti di vedere luce anche nei nostri cinema e scoprire la sua idea di cinema e di come certe dinamiche siano presenti fin dall’inizio, se pensiamo che Memorie di un assassino è del 2003 e l’ultimo in un’uscita Mother è del 2009 e fu accolto da un’ovazione al Certain Regard di Cannes.
Confrontare questi 3 film ci fa capire come l’occhio critico del regista sia sempre rivolto verso una strana lotta di classe vista dal basso e al tempo stesso ci racconta di come la Corea del Sud si sia trasformata negli ultimi 30 anni. Della netta differenza tra ricco e povero, tra città e campagna e di come quest’ordine delle cose tiri fuori gli istinti più bestiali dell’uomo.
La Madre protagonista del film non ha nome, vive emarginata vendendo erbe medicinali e praticando l’agopuntura clandestinamente senza licenza. La sua unica ragione di vita è suo figlio Do-Joon, un ragazzo con evidenti ritardi mentali che lo fanno sembrare un eterno bambino indifeso in balia dell’amore soffocante della madre e degli sfottò della gente che lo circonda provocandogli dei violenti corto circuiti.
Il ritrovamento del cadavere di una ragazza uccisa in modo efferato e umiliante porta a sospettare senza indugi di Do-Joon che viene arrestato e frettolosamente accusato di essere l’unico colpevole.
Inizia così la lunga battaglia verso la verità di questa madre disposta a tutto pur di dimostrare l’innocenza del figlio.
Madre è un viaggio all’inferno di noi stessi, di quello che siamo disposti a fare per proteggere l’unica cosa che ci è rimasta nella nostra desolante vita.
Se Memorie di un assassino era un thriller che puntava tutto sull’ossessione dei due poliziotti protagonisti, Madre ha un tocco decisamente Hitchcockiano (sin dalla colonna sonora). È un thriller fortemente psicologico tutto focalizzato sui traumi che ci portiamo dietro e la loro elaborazione.
Sapere chi è veramente il colpevole e l’indagine vengono relegate in secondo piano, Bong Joon Ho si concentra sull’idea di vendetta vista anche come riscatto sociale come si evince fin dalla scena al campo da golf che apre il film. L’omicidio è il pretesto per raccontare una società dove la giustizia è in mano a poliziotti inetti e ad avvocati che pensano solo al proprio tornaconto economico. Dove il sesso è pura merce di scambio e le ragazze sono disposte a tutto pur di avere una ciotola di riso. Dove il ricco è prepotente e prevaricatore e il povero è uno disposto a tutto pur di sopravvivere, quest’ultimo sarà il tema su cui si costruirà Parasite.
Lo spettatore segue lo stesso percorso della protagonista. Ne viviamo il dolore, lo smarrimento, la sofferenza fino ad arrivare al bivio dove morale e amorale si dividono e da dove non si torna più indietro. Tutto questo in nome di un amore che nel corso del film diventa sempre di più malato ma sempre di più intenso.
Nell’ultima mezzora Bong Joon Ho fa vedere tutto il suo talento registico sbrogliando l’intricata matassa che ci ha messo davanti a inizio film, rimettendo insieme quegli indizi che ci ha sparso nel corso della storia come pezzi di un mosaico.
Primi piani di volti che ci dicono una cosa ma in realtà è tutt’altro e alla fine l’unica cosa che vogliamo è dimenticare. Resettare tutto come se niente fosse successo attraverso un ballo liberatorio quasi senza senso che ci porta ad una nuova vita.
Voto 7,5
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