Regia di Joon-ho Bong vedi scheda film
L’amore materno acceca: chiude gli occhi a chi ne è portatrice, impedendole di guardare in faccia la realtà, e obnubila la mente all’oggetto del suo attaccamento morboso ed iperprotettivo, che, in questa storia, è un figlio già adulto, ma psichicamente svantaggiato. Il mondo disegnato da questa utopia affettiva è oscuro ed infido, al di fuori di quell’isola di bontà assoluta che è l’esclusivo habitat di quei due esseri così indissolubilmente legati. Il luogo in cui essi vivono è il regno dell’innocenza, dei sogni che si realizzano con gli infusi aromatici, dei dolori dell’anima che si sanano con l’agopuntura. Tutto, in quella piccola e rosea nicchia, è splendido e cristallino, ma è anche estremamente fragile, in quanto poco avvezzo a confrontarsi con i vizi della gente comune, ed, in particolare, con la menzogna e la colpa. La frequentazione del male è quella vaccinazione che ci consente di affrontarlo quando lo scopriamo addosso a noi stessi o ai nostri cari. Senza questa fondamentale esperienza, l’errore, il cedimento, la sbandata si trasformano in incubi insostenibili. Il film di Joon-ho Bong sviluppa questa tesi lungo il percorso di un giallo, in cui la strenua ricerca della verità, da parte della madre di un presunto assassino, si rivela una disperata ricerca di conferme alle proprie connaturate convinzioni: il ragazzo è innocuo, e tutto ciò che ella fa per lui è solo a fin di bene. Secondo questo concetto della maternità, idealizzato fino all’alienazione, il ruolo della genitrice è mantenere la prole all’interno di un nido caldo ed imbottito, sgomberando il terreno circostante da ogni insidia. Tutto, all’interno e nelle immediate vicinanze, deve rimanere pulito: al bando, dunque, le tentazioni, le cattive compagnie ed i cibi poco sani. Mano a mano che la donna si addentra nella propria personale indagine, intrapresa per scagionare il figlio, pare di scorgere, in lei, un crescente compiacimento nello scoprire la corruzione che alberga nelle vite altrui, quelli che, metaforicamente, sono cumuli di immondizia accatastati altrove, e quindi assicurano, anche solo per contrasto, la nettezza della propria casa. Se l’amico del figlio è un delinquente, la collegiale una sordida ricattatrice, sua madre una beona, il vecchio vagabondo un pervertito, non v’è più nulla che possa posarsi sul suo “bambino” facendolo apparire sporco. Così la sua passione diventa isteria, che la porta a non saper distinguere il proprio sangue da quello del figlio, la ferita della propria carne da quella inflitta a lui. L’evidenza è solo quella determinata dal cuore, che fonde ed esalta i dettagli in primo piano, sfumando, in un quadro indistinto, gli oggetti sullo sfondo. La protagonista è una sorta di Madre Coraggio supereroica, una donna che interpreta la propria missione come una sfida epica, che la vede sola a combattere contro un universo malvagio ed ingiusto, fino al sacrificio estremo: il sacrificio che, per lei, è più grave della morte, ed è la fine della sua funzione di maestra di virtù, ossia la perdita della fiducia che il ragazzo riponeva nella sua purezza e rettitudine d’animo. Mother è il dramma del mito che crolla, dell’individuo che si credeva protagonista di una suprema lotta voluta dal Cielo, e d’un tratto si ritrova, invece, normale tra i normali, debole ed imperfetto agli occhi di altri deboli ed imperfetti, e quindi adatto a mescolarsi con la massa, lasciandosi coinvolgere nei suoi futili e mediocri riti.
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