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Ombre ammonitrici

Regia di Arthur Robison vedi scheda film

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La recensione su Ombre ammonitrici

di (spopola) 1726792
8 stelle

Ombre ammonitrici (Schatten - Eine nachtliche Hallucination - Germania 1923) di Arthur Robison è un classico del cinema espressionista. Visionato solo due volte a distanza ravvicinata (ma ormai in anni lontanissimi: nel '64 in occasione del Maggio espressionista grazie al cineclub Primi Piani e l'anno successivo presso l'Istituto Stensen per un corso di formazione allo studio critico delle pellicole cinematografiche, io l'ho percepito come un capolavoro assoluto di quella corrente e un caposaldo per lo sviluppo del linguaggio cinematografico. Ecco il mio contributo al riguardo : Prima di esaminare un film come “Schatten” (Ombre ammonitrici), è assolutamente necessario studiare a fondo il momento particolare in cui si trovava la Germania nel periodo della sua realizzazione, perché per intenderne completamente i valori intrinseci e formali, non si può assolutamente prescindere dal grande movimento culturale che scosse dalle sue fondamenta non solo la Germania, ma tutta l’Europa, principalmente quella occidentale: l’espressionismo. Alcuni fanno risalire la nascita di questo movimento verso il 1910: in realtà solo in quella data fu coniato il nuovo termine per designare queste nuove tendenze artistiche che trovano la loro matrice già nell’ultimissimo ottocento, con una graduale, impercettibile trasformazione pienamente avvertibile negli ultimi romantici. L’espressionismo nacque come una naturale reazione contro l’impressionismo. L’opposizione infatti è già nei due termini che indicano due modi opposti di intendere la creazione artistica, a seconda che vi prevalga la soggettività dell’espressione o l’oggettività dell’impressione. L’individualità dell’artista non ricerca più un equilibrio oggettivo nei rapporti formali, nell’affermazione di un estetismo sensibile all’esperienza impressionista, ma lavora dall’interno, trovando la sua ragione di esistere nell’intimo della coscienza soggettiva, in una disperata ribellione a ogni valore tradizionale della vita. Non è un caso che l’espressionismo sia nato in Germania e che abbia poi attecchito su così vasta scala influenzando praticamente tutti i campi dell’arte, dalla pittura alla musica, dalla letteratura al cinema, portando poi con sé i germi di un effettivo rinnovamento artistico e culturale, dovuto a una maggiore presa di coscienza da parte di un popolo che poi doveva essere apertamente sconfessato, con le inevitabili, disastrose conseguenze che si ripercossero su tutta l’Europa e sfociarono per la seconda volta nella tragedia della guerra. Il movimento espressionista era parte integrante dello spirito germanico di quel periodo, lo sbocco finale di una crisi latente dal principio del novecento e che la guerra fece precipitare. Effettivamente la struttura dello stato tedesco, la sua rigida tradizionalità esterna, la sua coerente e intransigente organizzazione politica e industriale, avevano dato origine per contro, a un largo moto sul piano dei valori etico-estetici che stava a rappresentare il potenziale esplosivo di una rivolta morale e artistica che aveva bisogno solo di un pretesto per manifestarsi e finalmente esplodere in tutta la sua potenza. Già nel 1916 Hermann Bahr, esaminando questa corrente, diceva: “Espressionismo è l’arte che vede con gli occhi dello spirito, cioè il ritorno dell’uomo al suo io più intimo, predominio assoluto del sentimento assoluto, e del sentimento come fattore etico e creativo.” E Kasimir Edschurial: “La realtà deve essere creata, e non ci si deve accontentare del dato di fatto creduto e fissato. L’immagine del mondo deve essere rispecchiata nella sua purezza non deformata, ma questo è solo dentro di noi. L’artista non rappresenta ma vive, non riproduce ma plasma, non prende ma cerca; ogni cosa acquista rapporto con l’eternità. Sparisce l’individuo, vi è la creatura la cui esistenza è regolata non dalla meschina legge della logica e della casualità, ma dalla grandiosa unità di misura del suo sentimento.” L’espressionismo, in ultima analisi, fu quindi lo specchio di una crisi, la crisi in cui si dibatteva la coscienza di un intero popolo che esteriorizzava in gesti esasperati i propri sentimenti, la propria paura, mettendo a nudo i lati più oscuri dell’anima, liberando la bestia che si annidava nei più riposti angoli della coscienza di ciascuno e cercando così una purificazione che però non si riusciva a raggiungere. Queste matrici mostruose infatti, liberate e rigenerate, cominciavano a vivere indipendenti e incontrollate, trovando la via per insinuarsi nuovamente nella coscienza di ogni singolo individuo, che subiva questo nuovo processo di condizionamento, senza rendersi conto del reale pericolo a cui andava incontro (l’avvento del nazismo e l’ascesa al potere di Hitler.) Come già detto, la corrente espressionista influenzò più o meno tutti i campi artistici, anche se con risultati diversi. A noi, naturalmente, interessa l’espressionismo cinematografico, e quindi, dopo questa premessa di carattere generale, per forza di cose sommaria e incompleta, essendo l’argomento talmente vasto e complesso (per darne un esatto risalto sarebbe necessaria tutt’altra impostazione e un ben diverso e più approfondito studio della storia e dei costumi del popolo tedesco), passiamo all’esame di questo particolare e ristretto settore, che pure ebbe forse la più vasta eco (insieme alla pittura) e i più forti riflessi sulla gente, proprio per il suo carattere “popolare”, essendo il cinema prodotto di largo consumo, destinato principalmente alle masse. Il cinema, come arte composita, assommava in sé le soluzioni e le tecniche di tutte le varie discipline, partendo comunque principalmente dal teatro e dalla pittura, segmenti questi che probabilmente permettevano di raggiungere il più alto risultato di sintesi “espressionista” (il perpetuarsi di un attimo, fissato per l’eternità) in un’atmosfera di sfacelo allucinata e macabra. Il primo film dichiaratamente espressionista, fu “Das Kabinett der Doktor Caligari” (Il gabinetto del Dottor Caligari) di Wiene (1919), ma anche in questo caso non si può parlare di un completo, quanto improvviso, rivoluzionamento del sistema. E’ pur vero che nel “Caligari” di Wiene per la prima volta fu usata psicologicamente una scenografia prettamente espressionista, dipinta e deformata, con false prospettive e linee sghembe, ma è altrettanto certo che già qualche anno prima, in film come “Der Student von Prag” (Lo studente di Praga) di Rye e Wegener (1913) e “Homunculus” di Rippert (1916), si trovano evidenti tracce di matrice espressionista. Erano casi isolati che anticipavano tutti i temi cari al cinema espressionista, eppure passarono quasi inosservati, almeno da questo lato, probabilmente perché mancava ancora una adeguata maturazione da parte del popolo germanico, maturazione che invece avvenne grazie al periodo bellico, tanto che nel 1919, a pochissimi anni di distanza, l’intera nazione riuscì a riconoscersi completamente e inequivocabilmente, negli allucinati personaggi del film di Wiene (e da qui evidentemente nasce l’equivoco in cui cascano molti, nel considerare l’espressionismo cinematografico estrema conseguenza del rivoluzionamento morale e psicologico portato dalla guerra). Alla base di tutto c’era, secondo Kracauer, la loro ribellione contro le crudeltà della guerra e contro l’autorità simboleggiata dal Dottor Caligari. C’è da osservare, comunque, che questa ribellione, potenzialmente viva, non trovò mai la forza di sprigionarsi veramente nel popolo, che rimase indeciso e titubante, quasi terrorizzato dall’essersi riconosciuto in quei personaggi mostruosi. Il fascino e l’importanza di questo film, derivano essenzialmente dalla sua esasperata stilizzazione, in un gioco che si avvicina a quello della pantomima, perfezionato dalle ricerche sceniche dell’avanguardia. “I film devono diventare dei disegni viventi” proclamava allora Hermann Warm, e in fondo proprio in questa frase sta la chiave dell’estetica del “Caligari”. Il film, essenzialmente opera degli scenografi Warm, Rohrig e Reimann (del gruppo “Der Sturm”), fu realizzato dal regista Robert Wiene su una sceneggiatura originale di Mayer e Janowitz (soggetto di Janowitz) arbitrariamente rimaneggiata senza il consenso degli autori, con un totale ribaltamento di significato, e una conseguente notevole diluizione della carica polemica. Nonostante ciò comunque, il prodotto finito riusciva ancora a far leggere fra le righe i suoi originari polemici propositi. In fondo però questo film, con le sue luci dipinte sulla tela, i suoi quadri animati e il suo ritmo sincopato, non era altro che teatro fotografato, ed è quindi logico che le soluzioni adottate in fase di realizzazione, non soddisfacessero completamente gli altri registi dell’epoca, che avrebbero preferito cercare nuove soluzioni visive e espressive, anziché dover assoggettare la loro arte e il loro mestiere a mere esigenze scenografiche e riducendo così la loro funzione a semplici coordinatori dei vari elementi per ottenere un risultato finale omogeneo e conseguente. C’erano poi da tener presenti anche i fattori “recitazione” e “movimento cinematografico”: per armonizzare col fantastico delle tele dipinte, gli attori venivano vestiti con costumi eccentrici e stravaganti, imbrattati con truccature eccessive e immobilizzati in pose contorte e ricercate. I risultati, sorprendentemente impressionanti sotto il profili visivo, furono evidenti però soprattutto nelle fotografie tratte dai film. Il movimento cinematografico infatti, minacciava di annullare la composizione voluta dagli autori, in quanto non poteva cristallizzarsi, come nella pittura, nell’esclusivo attimo della sua creazione. Per questa ragione, gli attori erano costretti ad agire in funzione dei fondali dipinti, affrettando i loro movimenti quando si trovavano fuori dalle linee dominanti e staticizzandosi invece quando le loro pose armonizzavano con la scenografia. Questa mancanza di unità di ritmo, rappresentava senz’altro un forte handicap, e conseguentemente nessuno rimase a dormire sugli allori, ma tutti si adoperarono per cercare nuove soluzioni che potessero svincolare definitivamente il cinema espressionista dallo stretto legame che lo univano al teatro e alla pittura, e che potessero renderlo completamente autonomo, attraverso una “scrittura” che doveva essere esclusivamente “cinematografica”. Robert Wiene comunque, cercò ancora di insistere sulla formula che aveva decretato la fortuna del “Caligari”, nella vana speranza di poterne ripetere il successo, con “Genuine” (1920), avvalendosi nuovamente della collaborazione di Carl Mayer e di Reimann (questa volta coadiuvato da Klein), ma i risultati furono piuttosto disastrosi: il film mancava innanzi tutto di plasticità, e la storia stessa fu ritenuta poco adattabile allo stile espressionista. Questo insuccesso non costituì comunque una battuta d’arresto nell’evoluzione del linguaggio del cinema espressionista, ma fu semmai un ulteriore stimolo nella ricerca di nuove strade, innovative ma coerenti con il concetto di base, in quanto la corrente aveva ormai galvanizzato tutti i registi dell’epoca, influenzandone direttamente l’opera. Si arrivò così alla realizzazione di film come “Der mude Tod” (Destino, 1921) e “Doktor Mabuse, der Spieler” (Il Dottor Mabuse, 1922) di Fritz Lang; “Nosferatu, eine Symphonie des Guauens” (Nosferatu il vampiro, 1922) di Murnau; “Das Wachsfiguren Kabinett” (Il gabinetto delle figure di cera, 1924) di Paul Leni; etc, etc., mentre Carl Mayer divenne il principale teorico e soggettista di una particolare corrente di pretta derivazione espressionista, detta del “Kammerspiel” (letteralmente: “Teatro da camera”) che contribuì alla realizzazione di alcuni dei più vitali prodotti cinematografici di quel periodo, fra cui: “Der letzte Mann” (L’ultima risata, 1924) di Murnau; “Sylvester” di Lupo-Pick (1923) e alcune parti di “Die Strasse” (La strada, 1923) di Karl Grüne. Anche in questi films, l’uomo appare schiacciato dal destino, e la conclusione è invariabilmente tragica (anche se molte volte, per esigenze commerciali, viene aggiunto alle pellicole il lieto fine in extremis), ma non abbiamo più mostri fantastici e terribili estremamente stilizzati e idealizzati, ma uomini scelti fra la gente comune, e quindi una maggiore e più diretta identificazione con le reali problematiche del popolo tedesco. Robert Wiene cercò successivamente di riconquistare il successo perduto, con la realizzazione di “Raskolnikov”, esperimento solo parzialmente riuscito, di superamento dell’espressionismo: “Anche qui il regista (il film è del 1923) fa uso di scenografie stilizzate, dipinte su fondali, ma riesce a dargli un’effettiva consistenza plastica. Inoltre la loro funzionalità si mostra assai più efficiente, poiché ambienti divelti e contorti non sono usati indiscriminatamente, ma ad hoc, cioè quando l’azione drammatica effettivamente lo richiede”: (R. Mazzoletti – scheda Cineclub Primi Piani – Firenze, 4 aprile 1955). Con questo film, pur nella deformazione delle scene, si rasenta quasi il realismo. Fu in questo clima di stimolante ricerca che nel 1922 il regista Robison concepì e realizzò il film “Schatten” (Ombre ammonitrici), che ancor oggi rappresenta una delle più alte vette raggiunte dal cinema espressionista, come già accennato in apertura. Al suo apparire, comunque, il film (che è attualmente considerato, oltre che uno dei maggiori capolavori di quella particolare corrente, anche uno dei punti fermi della storia generale del cinema e della sua evoluzione) non suscitò grande scalpore e aspre polemiche, come era accaduto tre anni prima col “Caligari”. In un commento retrospettivo sul film, l’operatore F. A. Wagner dichiarava: “……Trovò rispondenza soltanto presso gli esteti del cinema; sul grosso pubblico non fece alcuna impressione…”. Effettivamente il pubblico lo ignorò quasi completamente, e solo una parte della critica ne seppe valutare l’esatta importanza. P. Rotha, nella sua “Storia del cinema”, a proposito di questo film dice fra l’altro: “La sua concezione puramente psicologistica (…) la sua perfetta unità di tempo e di azione, sono cosa nuova per il cinema (…) lo sviluppo del tema, la concatenazione delle sequenze, la graduale rivelazione dei caratteri e dei pensieri, erano realizzati senza un errore.”, mentre Kracauer, collocandolo a sua volta fra i capolavori del cinema, rileva che questo dramma straordinario, nato da un gioco di ombre e di luci, è sorretto dallo stesso spirito dei poemi cinematografici di C. Mayer, nel rifiuto della didascalia esplicativa. Nel complesso comunque, considerata l’importanza del film, è doveroso rilevare che esistono veramente pochi saggi e contributi critici che possano aiutarci per una valutazione più approfondita dell’opera e del suo grado di novità. Una delle caratteristiche innovative più importanti del film, sta nell’utilizzo dell’illuminazione: Robison infatti, seppe sfruttare completamente per la prima volta, e con ottimi risultati, le possibilità “espressionistiche” offerte dalla luce. Anche qui si partì comunque da un’esperienza precedentemente acquisita in teatro, dove da sempre, oltre che con gli scenari e la recitazione degli attori, si faceva dell’espressionismo con l’illuminazione, appositamente studiata per raggiungere determinati effetti: improvvisi coni di luce che squarciavano l'oscurità, urlanti nel loro netto contrasto, in un gioco fantasmagorico di luci e di ombre che non sfumavano, ma che rimbalzavano nette nei loro contorni definiti, incrociandosi e disperdendosi, erano sufficienti a creare un’atmosfera da incubo più che elaborate scenografie di cartapesta. L’importanza di questo fattore era stata sentita anche ai tempi del “Caligari”, ma il modo di intendere l’illuminazione del set cinematografico, aveva impedito il completo realizzarsi di quei contrasti violenti, tanto che per raggiungere gli effetti desiderati, si era ricorsi in più di un’occasione al compromesso (se così si può chiamare) di dipingere direttamente le luci sui fondali. Quindi Robison, per primo nel cinema, seppe sfruttare completamente la luce come elemento determinante per la riuscita del prodotto, allargando notevolmente le possibilità espressive di questa nuova arte. Avendo acquisito questa importante arma, poté rinunciare ai fondali dipinti, diventando di conseguenza il vero creatore del film, non essendo più condizionato dalla necessità di dover piegare il suo linguaggio alle esigenze della scenografia. Anche gli attori, fra i quali campeggiava Kortner, poterono così dare il meglio della loro arte, raggiungendo punte veramente alte che possono costituire un saggio esemplare di cosa significhi davvero “recitazione espressionista”. Come ben seppe puntualizzare Arduino Agnelli,: “la figuratività di ‘Ombre ammonitrici’ viene ad assumere un suo preciso ruolo nello sviluppo dinamico della narrazione, diventa movimento, in una concatenazione perfetta con la lentezza della recitazione particolarmente appesantita.” In effetti, ancora oggi il film risulta di una coerenza narrativa e di un ritmo omogeneo veramente rari per il cinema di quel periodo. Non ci sono movimenti di macchina, se si eccettuano due impercettibili carrellate, ma l’uso del materiale plastico all’interno dell’inquadratura, riesce a dare un movimento cinematografico unitario a tutto il film. Le pareti del castello che fanno da sfondo alla vicenda, sono spesso completamente bianche, ornate solo da pochi indispensabili oggetti, e si ravvivano grazie ai sapienti giochi di ombre e di specchi che costituiscono il vero montaggio all’interno dell’inquadratura del film, e che riescono a ricostruire in maniera esemplare i classici incubi espressionisti. Sono i personaggi e le loro ombre che, muovendosi, creano l’atmosfera: la recitazione è fissata nei gesti esteriori e nelle reazioni interiori, con uno scrupolo indagatore impressionante. Rivelatrici degli intenti del regista, risultano le prime scene, dove si assiste alla presentazione dei vari personaggi con lo stesso schema del teatro dei burattini: l’immagine della persona fisica viene assorbita dalla sua ombra, riprodotta però sullo schermo in proporzioni gigantesche, semplice proiezione della coscienza deforme e degli istinti perversi che si annidano nell’animo di ognuno. E infatti poi il film ci fa rivivere un dramma (quello della gelosia) non nei suoi normali sviluppi, ma in un’esperienza ricreata nell’ambito della coscienza dei singoli personaggi, che comunque potranno poi tener conto degli insegnamenti così acquisiti. Interessanti, a questo proposito, risultano le sequenze dell’inizio del “sogno”, quando i protagonisti della storia annullano le loro ombre, che rientrano gradualmente nella loro matrice. Di conseguenza, pur nell’illusione creata dal giocoliere (“l’unico mago benefico e per giunta bonariamente umano di tutto l’espressionismo”, come dice Ladislao Mittner su “Espressionismo” – edizioni Mondadori), vivono anche fisicamente il dramma di sangue già presente e vivo nella loro anima, come estrema conseguenza del loro comportamento, e le sequenze della fine del “sogno” quando i personaggi “liberano” nuovamente le loro ombre per riprendere la loro vita, coscienti però dell’esperienza fatta. I risultati di questa pacificazione interiore, portano poi, conseguentemente, a una visione più oggettiva del mondo, magistralmente simboleggiata dall’ultima inquadratura, quasi naturalista (e in completa antitesi con tutto il resto del film) proprio per necessità stilistica e narrativa. In una sola scena il regista usa ancora i fondali dipinti: nella scena in cui il marito geloso immagina la moglie in giardino, attorniata dagli sguardi colmi di desiderio dei corteggiatori (che vengono introdotti nella sequenza in sovrimpressione). Anche questa differenza di stile è legata indissolubilmente all’economia del film, per sottolineare che si tratta di una semplice immagine della fantasia, deformata dalla gelosia, e per questo meno “vera”. Tuttavia, qui si avverte un certo squilibrio, e questa sequenza risulta, a mio avviso, fra le più deboli, nell’ambito della struttura del film (insieme alla scena delle corna del cervo che sovrastano l’ombra del marito tradito che, seppure efficace, risulta grossolana e gratuita). Sotto il profilo dell’utilizzo delle luci comunque, specialmente la prima scena è estremamente interessante: la sorgente luminosa è collocata sotto l’inquadratura, e di conseguenza, certe parti dell’immagine subiscono un’accentuazione violenta e acquistano forti ombre, che servono a dare rilievo plastico, mentre ne velano altre; staccano alcune linee, altre ne scorciano, creando durezze e contrasti violenti. Uguale trattamento viene usato dal regista per alcuni primi piani degli attori, specialmente di Kortner, ottenendo buoni risultati. Basta infatti che il suo volto scomposto irrompa per un attimo di sbieco in primo piano, con i tratti alterati e resi più evidenti dall’illuminazione, perché tutta la sequenza raggiunga un’intensità espressiva veramente sorprendente: la bocca, le mascelle, tutta la faccia si contrae in un grido muto, in un urlo senza voce fissato nell’estasi immobile di un gesto scandito per sempre. La psicologia dei vari personaggi ci viene rivelata gradualmente dal regista, specialmente nella parte del “sogno”, attraverso le mille sfaccettature della loro personalità, con un’indagine condotta minuziosamente sui volti, sugli atteggiamenti esteriori e senza bisogno di ricorrere alle didascalie, che sono qui ridotte al minimo indispensabile. Alla fine del “sogno”, i protagonisti del dramma si trovano ormai liberati dai propri incubi e dalle proprie tentazioni (si tratta in fondo di un processo di psicanalisi che trae le sue origini dalla diretta applicazione delle teorie freudiane), completamente rigenerati e pronti iniziare una nuova vita. E’ proprio tenendo conto di Freud e della psicanalisi che, concordando con quanto scrive Kracauer, ritengo il finale del film completamente positivo, almeno per i due sposi. La possibilità del tradimento è sventata nella donna, come è scomparsa nell’uomo ogni traccia di gelosia: solo ora sono pronti per trascorrere la loro vita uniti, e si affacciano fiduciosi alla finestra del castello, mentre sopraggiunge il nuovo giorno a fugare definitivamente le ombre della notte. Il cavaliere avvilito e triste che si allontana, non è altro che l’ultima tentazione che se ne va, definitivamente sconfitta. Ora gli sguardi dei due sposi, finalmente rasserenati, possono spaziare sulla piazza sottostante, felici e innamorati, mentre il giocoliere, che forse è esistito solo nel loro subconscio, può lasciarli definitivamente.

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