Regia di Felix Van Groeningen vedi scheda film
L’irriverenza del cinema belga contemporaneo contiene una lezione di vita. Prendere a calci e pugni la sfortuna, cercando di ridere dove verrebbe da piangere è il primo passo. La prima parola del titolo originale olandese di questo film ha come radice l’avverbio helaas (usato anche come interiezione) che significa disgraziatamente. La sua versione sostantivata helaasheid (che è, in realtà, frutto di un’invenzione linguistica) è intraducibile; in Francia, comunque, ci hanno provato con un eloquente merditude. Lo scrittore fiammingo Dimitri Verhulst ha ritenuto di dover coniare un nuovo termine per descrivere l’ambiente della sua infanzia infelice: l’immaginario villaggio di Reetveerdegem (un improbabile nome monovocalico), in cui il piccolo Gunther Strobbe, dopo la separazione dei genitori, è costretto a convivere con la nonna, un padre ubriacone e buono a nulla, noché tre zii che non sono da meno. Il ménage familiare è un’iperbole grottesca del disagio e della dissolutezza, che Van Groenigen trasforma in uno spettacolo di marionette male in arnese, tra eccessi e bestemmie, straripare di vizi e sporcizia dilagante. Il modello di Ex Drummer, a sua volta radicato nell’estremismo del politically incorrect propugnato da Man Bites Dog, continua a fare scuola, e ad arricchirsi di sfumature più realistiche, in quanto relegate non più nella completa alienazione dalla società civile, bensì calate nella dimensione domestica, dove i legami di parentela conservano un significato preminente, e partecipano alla situazione di crisi, aggravando la tensione ed accentuandone i paradossi. La stessa presenza di bambini – il protagonista, intorno a cui tutto ruota, più altri due, che entrano in scena in momenti cruciali della vicenda – restituisce il senso di un’umanità emarginata, ma ancora in divenire, che può forse cambiare rotta e allinearsi al resto del mondo, dove i ragazzini hanno due genitori, una casa ordinata, e giocano con i trenini elettrici. La normalità borghese è solo in parte un provocatorio contrappunto, da cui lo spirito libertario vuole prendere le distanze: in questo caso funge soprattutto da drammatico termine di paragone, che fa emergere tutta l’infelicità, insieme alla stupidità grazie alla quale gli adulti che fanno da contorno a Gunther se la sono procurata con le loro stesse mani. Essere stupidi e infelici è il modo in cui gli Strobbe esprimono la propria condizione di diversi: sono gli Addams della situazione, ma non per scelta, bensì per una predisposizione genetica alla sventurata avventatezza che perpetua la linea ereditaria del non saper vivere. Il destino infame è scritto nella carne: e non a caso il film di Van Groenigen si esprime col registro del disgusto visivo, basato su un tripudio di liquidi organici: nella spudorata incontinenza dei corpi si manifesta la disgregazione della morale, che conosce solo il richiamo degli istinti più animaleschi, sia pur, in qualche misura, disciplinati dalle regole della convivialità paesana. Sono i riti collettivi a partorire mostri: le bevute in compagnia, le gare amatoriali di ciclismo, le carnevalate, che a Reetveerdegem sono un invito alla depravazione, individuano nella massa, soprattutto quella confinata nelle aree depresse della provincia, il fertile terreno nel quale germogliano le erbacce. La bruttura inizia e finisce come un gioco, perverso ma ruspante, rozzo ma fantasioso: è impastato di sudiciume eppure sfoggia colori vivaci, è inesorabilmente tragico, eppure è intriso dei toni della commedia. E, allo stesso modo, riesce ad essere, nel contempo, inverosimilmente eccentrico e genuinamente popolare. Forse il suo segreto è la capacità di passare, in maniera pungente, attraverso tutti e cinque i sensi, con le speziate emanazioni della vita che, godendo, si moltiplica e si consuma.
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