Regia di Tsai Ming-liang vedi scheda film
Quel che più colpisce del nuovo film di Tsai Ming-liang è l’intertestualità che il cineasta taiwanese intraprende con la sua produzione precedente. Già con Il gusto dell’anguria Tsaï recuperava valigie abbandonate di recente memoria (Che ora è laggiù?) e scenari di poco antecedenti (The hole). Con Visage il regista taiwanese gira una sorta di film-game che sfida lo spettatore a cogliere sequenze e situazioni già comparse nella sua filmografia. Gli esempi si sprecano e risaltano per l’esagerazione quantitativa e qualitativa della citazione: dal guasto al rubinetto che provoca l’allagamento dell’appartamento (evidente rimando a Che ora è laggiù?) all’accenno di incesto con la madre (Il fiume sullo sfondo), dal materasso sull’acqua (citazione esplicita dell’epilogo del capolavoro tsaiano I don’t want to sleep alone) a Jean-Pierre Léaud sorpreso su una panchina cimiteriale (di nuovo Che ora è laggiù?), dal primo piano del pianto di Yang Kuei-mei (come dimenticare il celebre finale di Vive l’amour?) al banchetto in onore dello spirito di un caro morto, rimando per l’ennesima volta a Che ora è laggiù? (senz’altro il film più vampirizzato da Visage, anche per il finale ai giardini Tuileries) fino agli stacchetti di musical già adottati nel sorprendente Il gusto dell’anguria.
Altro elemento brutalmente visibile, per non dire accecante, è la presenza di Truffaut. Nel 1994 il regista francese veniva ripreso discretamente e delicatamente con la camminata finale della protagonista di Vive l’amour, evidente rimando alla fuga di Antoine Doinel ne I 400 colpi. Qualche anno più tardi, la proiezione di una sequenza del celebre esordio truffautiano al lungometraggio esaltavano l’importanza del cineasta francese per Tsai Ming-liang che si avvalse, non a caso, anche della partecipazione di Jean-Pierre Léaud alias Antoine Doinel teneramente invecchiato. Con Visage la passione viene urlata, sbandierata, vomitata platealmente: non solo Jean-Pierre Léaud, dunque, ma anche tre delle attrici feticcio di Truffaut (Fanny Ardant, Nathalie Baye, Jeanne Moreau). Non solo la ripresa, per l’ennesima volta, del finale de I 400 colpi attraverso fotogrammi, ma anche i ritratti di Truffaut stesso sfogliati dalla sua ultima compagna Ardant accanto all’altare in onore di una morta che, non a caso, torna. Ed è questa, a mio parere, la sequenza chiave del film: se i fantasmi restano, se il passato è sempre attuale, allora anche il vecchio cinema, altrui o autarchico, sopravvive. Ed ecco che la scarna trama del film consiste nella produzione di un film di cui il Doinel taiwanese Lee Kang-sheng ne è regista, quasi a sussurrare che novità e creatività debbano essere sempre accompagnate dallo sguardo al passato. Il riferimento è evidente e riguarda, ancora una volta, un’opera di Truffaut, quell’Amour en fuite composto di sequenze e scene di film precedenti.
In questa prospettiva, il nero cercato da Laetitia Casta si rivela autentico desiderio di dissolvenza, una pretesa di flash-back, uno spazio lasciato al montaggio (fondamentale ne L’amour en fuite) e il viso citato nel titolo è sempre riflesso, rimando a se stesso. Di nuovo le due coordinate del film si confermano: Tsai Ming-Liang letteralmente in corto circuito.
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