Regia di Chan-wook Park vedi scheda film
Indigestione di sangue e fede.
"E' piuttosto curioso come tra tutti i film prodotti in Corea del Sud quelli che vengono esportati all'estero e hanno più successo all'estero sono proprio quelli dove in effetti la violenza è più presente e più esplicita. Non credo che l'audience coreana abbia la percezione di un livello di tolleranza più alto nei confronti della violenza, anche perché se guardiamo al box office i film che hanno successo da noi in patria sono le commedie che fanno ridere e commuovere la gente: quindi in effetti sono io che dovrei chiedere a voi come mai in occidente amate così tanto i film violenti." (Chan-wook Park)
Il film più liquido e sontuoso di Park Chan-wook.
Il regista sudcoreano è un designer dell'immagine; un sarto del quadro visuale che utilizza il tessuto filmico per ricamare (sublimi) immagini modistiche. Un esteta sfrenato ed appassionato, con un furore stilistico irrefrenabile, il quale si riversa sottoforma di un'ostentata e platonica ricerca di raffinatezza, come se il suo modus operandi fosse un'iperviolenta manifestazione di edonismo formale o, meglio, di "dandismo cinematografico". Thirst, per l'appunto, è la pellicola più esemplificativa dell'autore di Old Boy [2003], quella nella quale si evince maggiormente tutta la forza espressiva del regista e in cui convogliano tutte le ossessioni e i vezzi parkiani, quali la mania per le scarpe, i primi e primissimi piani per ciò che riguarda il collo dei personaggi, gli eleganti décadrages, le rapide e feroci zoomate in avanti e indietro, i catartici scenari innevati, le riprese perfettamente verticali dall'alto verso il basso, etc).
Bak-jwi è l'opera più proteiforme e stratificata di Park, cioè quella che spazia in più generi: dall'horror al sentimentale; dalla commedia all'erotico. L'intera parte finale, ad esempio, è un mix (perfetto) di acre romanticismo e comicità slapstick; insomma, una (lunga) sequenza sospesa tra Allen e Chaplin, la quale rimane avvolta da quell'atmosfera macabra, ancorata all'inafferrabilità dell'horror sui generis. La storia è quella spietatamente dolce à la Let the Right One In [2008]; le luci sono quelle pastose (e pastellose) à la Cold Fish [2010]; la sceneggiatura è quella complessa e articolata à la Bong; la regia è quella geometricamente sfarzosa à la Kubrick, ma anche quella stilosamente vertiginosa à la Noé.
Thirst è un lungometraggio conturbante, sinuoso, incantevole e diversificato, nonché l'apice del suo barocchismo visivo, in cui, tra le varie scenografie simboliche, esplode tutta la furia visionaria del filmaker sudcoreano, tutto il suo febbrile amore per il mezzo cinematografico. Tra l'altro, risulta essere una pellicola tesa, ansiogena, pregna di suspense, che sorprende e spiazza - l'opera è piena di sottocolpi di scena - ma non si tradisce mai, restando fedele e ben salda alla propria struttura narratologica. Un film, difatti, con una coerenza (tramica) spaventosa. Basti pensare a come il film si apre e si chiude: il personaggio principale entra in scena avvilupato da un fascio di luce, come se nascesse in essa e grazie ad essa; nell'excipit, invece, è quella stessa fonte luminosa che troncherà la sua vita e gli darà la (agognata?) morte.
Tra pungenti conflitti religiosi e seducenti desideri che richiamano la dimensione pulsionale relativa ad Eros e Thanatos, si potrebbe definire Thirst come una trasversale ed estatica storia d'amore.
Uno dei più grandi lungometraggi dell'"orrore" (anche qui, come in Miss Zombie [2013], le virgolette sono d'obbligo) del XXI secolo.
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