Regia di Jacques Audiard vedi scheda film
Il giovanissimo Malik deve scontare sei anni di prigione per aver aggredito un poliziotto; dietro le sbarre si trova casualmente, e senza nessun entusiasmo da parte sua, nelle condizioni di poter fare un favore a un boss (uccidere un testimone) e da quel momento inizia uno spericolato gioco multiplo fra il clan dei corsi, quello degli arabi e un piccolo spacciatore, cercando di ritagliarsi un suo ruolo autonomo. Il film dimostra in modo esemplare la funzione rieducativa del carcere: Malik vi entra rozzo, analfabeta e indifeso e ne esce pronto a inserirsi nei quadri medio-alti della criminalità organizzata (mi viene in mente una frase di Tim Robbins in Le ali della libertà: “Nella vita civile ero una persona onesta, è qui dentro che sono diventato un diavolo”). Si finge sottomesso, ma senza darlo a vedere impara che padroneggiare le lingue (ossia capire l’avversario senza farsi capire da lui) significa avere un’arma decisiva; aspetta con pazienza il giorno in cui poter ricacciare nella polvere l’ormai ex boss, in una specie di simbolica uccisione del padre. Ed è significativo, è giusto che la sua prima vittima (il suo peccato originale e al tempo stesso l’origine della sua carriera) diventi un angelo custode che lo guida in questo percorso di redenzione a rovescio: è come se, uccidendolo, ne avesse assorbito la forza vitale.
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