Regia di Jacques Audiard vedi scheda film
Malik è un giovane francomagrebino senza appartenenza né passato (orfanatrofio), senza parola (non sa leggere né scrivere), senza religione (non credente, non praticante, mai posto il problema), senza amici o conoscenze. Finisce in prigione, solo. In pochi anni diverrà un pezzo grosso del traffico di droga del Mediterraneo. Il battesimo del carcere lo vede compiere un brutale assassinio preso dentro dalle grinfie di un boss corso, che dalla galera gestisce i suoi sporchi interessi esterni. Da lì in poi tra il vecchio e il ragazzo si instaura un rapporto d'insegnamento e servitù, di soggezione e voglia di rivalsa, di violenta imposizione e desiderio di vendetta che sfocerà alla fine di un drammatico percorso di formazione nel rovesciamento delle parti. Tahar Rahim, bravo a interpretare il protagonista, imparerà a cavarsela e a lavorare per sé stesso con uno spiccato spirito di sopravvivenza e tanta determinazione. Si dedicherà allo studio delle lingue, il francese e il corso, con cui si salverà la pelle, e userà l'arabo per stringere allenaze con i "fratelli" e costruirsi mercati illeciti. Doppiogiochista per necessità, la farà franca ingegnandosi a crearsi un "solido futuro" fuori dalle sbarre. Omicida, verrà tormentato dal fantasma della sua prima vittima, coscienza e alleato assieme, apparizione onirica, ottima a cadenzare le due ore e mezza totali di racconto. Le visioni di Malik, che gli varranno il soprannome di Profeta sono slanci poetici importanti. La regia è ferma, il risultato rigoroso. Il nichilismo nudo e crudo d'insieme è evidente dichiarazione di sconfitta e inutilità del sistema carcerario e metafora della vita reale. Audiard, di cui già avevamo apprezzato Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore, dimostra di essere indubbiamente un regista di personalità, tosto e spigoloso. Non per tutti.
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