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Il profeta

Regia di Jacques Audiard vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su Il profeta

di Marcello del Campo
6 stelle

Che Jacques Audiard abbia superato le prime due prove (Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore), film sommessi quanto espressivamente ragguardevoli, come sembra a molti che su questo blog e in altri, dove si gareggia a portare sugli scudi il ‘capolavoro del decennio francese’, a me non pare. Che Un Prophete sia uno dei migliori film carcerari della storia del cinema, è vero solo per chi si è abbandonato a esercizi di elisione di altri film altre prigioni

In breve, senza dare lezioni di regia, tirando in ballo competenze che non mi appartengono, ma utilizzando occhi e memoria, mi pare di poter affermare che Un Prophete è un solo un buon film carcerario, inferiore senza alcun dubbio all’inarrivabile Il buco di Becker, ma anche ai lasciti ‘classici’ che qualche smemorato spettatore e critico teme di evocare, pena istituire paralleli svantaggiosi per il regista in odore di santificazione.

Qualcuno scrive che Un Prophete non è ‘solo un film carcerario’: è vero, ma Io sono un evaso, Il Buco, Nick mano fredda sono forse soltanto ‘film carcerari’? Altri dice che Un Prophete è anche ‘una metafora della società’: è vero, ma è una considerazione di una banalità sconcertante, ogni opera (d’arte o non-arte) essendo metafora, allegoria, rispecchiamento, riflesso e tutto quello che anni di estetica hanno insegnato.

Non è stato Il buco (punto d’osservazione liminare ma definitivo) un saggio sulla struttura concentrazionaria, analisi precisa, tagliente come un diamante, sulla potestà (in senso foucaultiano) del dominio di ‘sorvegliare e punire’, un’analisi, la più lukacsianamente intesa delle classi e dei conflitti di classe (con il buon borghese, spia e servo all’interno e all’esterno dell’universo-panoptycon)?

Parlo di film senza speranza, senza redenzione: infine, l’eroe resta in cattività, viene torturato, ucciso; carne da macello, come ci insegnano anche le cronache italiane, se, distraendoci dalle illusioni audiardiane, ficchiamo il naso sul destino di Stefano Cucchi.

 

Non resta che difendere l’ottimo Audiard dai suoi stessi dimentichi estimatori. Perché il regista francese li esibisce i suoi gioielli ispiratori: Ryad appare dopo essere stato sgozzato, quando la coscienza infelice di Malik reclama l’ausilio, come ‘l’invisibile presenza di Melquìades’ nella casa dei Buendìa in Cent’anni di solitudine; il richiamo al Genet di Quelques fleurs pour un chant d’amour (qui Audiard attinge alla poesia dei muri che separano i corpi privati del sesso: le riviste porno, la solitudine masturbatoria, indagata cinquantacinque anni fa nell’obliata sociologia di Caryl Chessman in Cella 2455 braccio della morte); queste e molte altre fonti esibisce Audiard, e lo fa a modo suo per dirci: questo film non nasce da una tabula rasa, ho raccolto a modo mio l’eredità dei poeti che hanno cantato i luoghi di contenzione.

 

Si dirà, allora, qualcosa sull’entrata-uscita dal carcere, si porrà l’accento sui sottopoteri interni nella vita dei reclusi, di come le gerarchie brutali di gang decidano il traffico di droga dall’interno all’esterno, della servitù dei corpi, delle lotte tra còrsi, italiani, arabi per il controllo del territorio. 

 

Audiard costruisce un film complesso ma indeciso: passaggi bruschi dalla allarmante quiete dei giorni che mancano ad Alik per uscire all’aria aperta, ai fragori anapestici, febbrili nei quali l’urgenza di far quadrare la vita interna con quella esterna porta ad accelerazioni (artificiose, con il ricorso a montaggio e stilemi rock) che deturpano la cadenza ‘andante con moto’, impressa a tutto il racconto; frames caotici che illustrano flashback e flashforward affidandone la fattura all’expertise in materia, un po’ come fanno i grandi quotidiani con le fanzine allegate; o qualche ‘tarantinata’ da cui, a detta di incliti estimatori, si dice essere Un Prophete immune (vedi la sparatoria finale contro l’auto blindata, una concessione allo ‘spettacolare’ che non giova a un film buono ma didascalico).

Che dire, infine?

Un Prophete è un buon film, - un ottimo film, se volete, - non un capolavoro.

Cosa cambierei

La soundtrack di Alexander Desplatt non è irresistibile, tranne i  brani aggiunti Runeii dei Talk Talk (dall’album Laughing Stock del 1991), Take Me Home With You, Baby di Jessie Mae Hemphill (dall’album Get Right Blues del 2004), Corner of My Room di Cody Turner (dall’album First Light del 2008) e Mack the Knife  di Weill-Brecht sui titoli di coda nell’interpretazione di Jimmie Dale Gilmore (dall’album One Endless Night del 2000

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