Regia di Jacques Audiard vedi scheda film
Audiard disegna l’universo carcerario come il microcosmo che meglio esemplifica le dinamiche che determinano i rapporti di potere all’interno della società: le inimicizie, le rivalità, le alleanze, gli scambi di favori sono i meccanismi regolatori di un sistema in cui l’inquadramento è inevitabile, perché ognuno deve stare dalla parte di qualcuno, ossia appartenere ad un gruppo, e agli ordini di qualcuno, occupando un posto ben preciso all’interno delle gerarchie. Le suddivisioni e le graduatorie sono definite da fattori etnici, religiosi, linguistici o dall’anzianità solo in maniera indicativa e provvisoria, perché il criterio che definitivamente prevale è quello dell’interesse personale. Il richiamo del denaro supera agevolmente le barriere culturali, e non è certo un caso se il crimine è la più grande multinazionale esistente al mondo. Il protagonista, Malik, un uomo dalle origini indefinite, figlio di genitori sconosciuti, che parla ugualmente bene l’arabo e il francese (ed ha pure imparato il dialetto corso), e non è né cristiano né musulmano, è la classica figura di collegamento, che si presta ad esercitare più ruoli in contesti diversi: così da delinquente comune, proveniente dal riformatorio, si trasforma ben presto in un vero e proprio factotum, che è sicario, picchiatore, trafficante, informatore e, una volta ottenuta la semilibertà, riesce ad essere, simultaneamente, un leader fuori ed un gregario dentro. La sua ecletticità ne determina l’adattabilità e l’autonomia: egli è il prototipo dell’individuo moderno, che sceglie di essere uno, nessuno, centomila per non compromettersi con un’identità univoca che, col passare delle mode e l’alternarsi delle congiunture, potrebbe un giorno rivelarsi inadeguata e perdente. Il suo essere sfaccettato è predisposto a cogliere ogni occasione, vivendo giorno per giorno dei piaceri che danno momentanea sicurezza e gratificazione, come il sesso, la droga, la televisione, senza mai pensare a ciò che sarà. La sorte dell’amico Ryad, condannato da un tumore, fa da contrappunto alla sua esistenza informe, in cui il tempo non ha l’aspetto di un ciclo destinato a compiersi, bensì è, semplicemente, la successione degli istanti, che corre verso una falsa eternità, avvolta nella nebbia della noncuranza. La trascendenza, per Malik, è quella religiosità laica basata sullo spiritismo e la preveggenza: è la fede in una dimensione soprannaturale capace di sollevarci, a comando, dallo squallore della realtà, per farci sentire immensamente felici e onnipotenti. E', questo, lo spirito di tutte le idolatrie e di tutte le dipendenze, in cui l’ossessione diventa una (illusoria) fonte di forza interiore: ciò che ci domina e, in effetti, ci ammorba, è, invece, per noi, la riconferma della potenza delle nostre emozioni. Il fantasma di Reyeb, il detenuto che Malik è stato costretto ad uccidere a tradimento, non è, per lui, un peso sulla coscienza: è, piuttosto, il ricordo di un gesto memorabile, di cui non si credeva capace, e che, in un certo modo, ha inaugurato la sua vita “adulta”, quella che pone una distanza tra ciò che si è e ciò che si fa. La crescita è, secondo questa mentalità, un percorso di liberazione dal senso di colpa, che ci svincola completamente dai problemi del presente e ci sbarazza dall’eredità del passato: in ogni momento possiamo, così, diventare nuovi, ricominciando veramente daccapo.
Il profeta è, sotto il profilo umano, il romanzo dell’individuo che rifiuta la storia, che ha dimenticato il proprio ieri e non si lega all’oggi perché domani tutto potrebbe cambiare. La sua è l’ottica del supereroe, che, in ogni episodio della sua saga a fumetti, è sempre nelle stesse condizioni perfette, sempre ugualmente pronto ad affrontare l’ennesima sfida, senza mai preoccuparsi di tutte quelle che lo stanno aspettando. D’altronde sapere ciò che accadrà, forse, non serve davvero a nulla, e sottrae soltanto gusto ad una rischiosa avventura che, se saremo sufficientemente abili, finirà comunque per portarci lontano.
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