Regia di Jacques Audiard vedi scheda film
Malik El Djebena (Tahar Rahim) è un ragazzo di diciotto anni che deve scontare sei anni di detenzione carceraria. E' cresciuto in orfanotrofio e fuori non ci sarà nessuno ad aspettarlo quando uscirà di galera. Solo e impacciato, Malik entra suo malgrado sotto la protezione di Cèsar Luciani (Niels Arestrup), un boss della mala corsa, che in cambio della sua sopravvivenza gli chiede di uccidere per lui un malvivente arabo (Hichem Yacoubi). Mai integratosi completamente coi corsi che spadroneggiano nella prigione e mal visto dalla moltitudine di africani che la occupano, Malik è solo con la sua voglia di riscatto, che è prima personale e poi sociale, e cerca di districarsi alla meglio in un ambiente dove vige la feroce legge del più forte.
La macchina ad altezza uomo consente ad Jacques Audiard di seguire passo passo il percorso evolutivo di un ragazzo analfabeta che entra in carcere da detenuto comune e ne esce con i galloni della rispettabilità che è riuscito a conquistarsi, di fissare la crescita esistenziale di un uomo qualunque che la necessità di sopravvivere in un ambiente duro come il carcere ha reso scaltro e violento. Quella di Malik è un'iniziazione alla vita che comincia con l'entrata in carcere e che poi segue un rituale canonizzato dal sistema di cose vigenti che ricalca fedelmente i condizionamenti sovrastrutturali di una società che tende a premiare chi sa muoversi con spregiudicatezza tra le pieghe del malaffare, chi sa adeguarsi alle leggi del branco e con pazienza aspettare il suo turno. Malik più che scegliere è scelto dalla malavita, la sua faccia da ragazzo qualunque e il suo saper parlare arabo sono fattori che lo rendono un utile pedina in mano ai corsi per insinuare un loro cavallo di troia nella roccaforte degli africani che popolano la prigione. Dopo "Sulle mie labbra" e "Tutti i battiti del mio cuore", Audiard usa ancora il linguaggio come strumento di emancipazione dei suoi personaggi. Se la capacità di leggere le labbra per Carla e la musica per Thomas rappresentavano la possibilità di entrare in uno spazio amico, è la lingua araba e l'uso di diverse inflessioni dialettali (apprese studiando nel carcere) a dare a Malik la capacità di districarsi tra più fronti, di comunicare in più ambienti e, quindi, la possibilità di preparare con cura l'anestetizzazione del tempo dell'attesa attraverso il miglioramento della sua condizione carceraria (viene trasferito in una cella con televisione e frigo e può ricevere delle prostitute) e la dilatazione progressiva del suo spazio vitale. Lo stesso autore francese ha sottolineato che l'ambiete carcerario da lui descritto rappresenta una "metafora della società francese" (come "Le mur" di Yilmaz Guney), un microcosmo che riproduce su scala ridotta la stessa stratificazione etnica, le stesse dinamiche sulla gestione del potere, lo stesso grado di incomunicabilità, diffidenza, pregiudizi che intercorrono in quel grugiolo di razze che è la Francia (e l'Occidente). Un microcosmo dove gli arabi "continuano a moltiplicarsi", come dice il boss Cèsar Luciani, che si lamenta del fatto che "una volta il cortile era tutto nostro". Uno spazio simbolo di una società, tanto brava a punire i deboli, quanto incline ad accondiscendere agl'interessi dei più forti. Un aspetto del più ampio stato di cattività in cui è stato ridotto il popolo degli emarginati sociali che intanto, grazie a un loro profeta, hanno sgominato il potere dei corsi e conquistato il dominio della prigione. "Un prophète" è un gran bel film, spigliato, vitale, ottimemente diretto e suberbamente interpretato da bravi attori tra cui spiccano il "profeta" Tahar Rahim e il "boss corso" Niels Arestrup. Quello che mi ha colpito di più è la maturità di Audiard che, pur usando un soggetto abusato, lo conduce lungo un percorso del tutto personale e originale raggiungendo un equilibrio quasi perfetto tra il realismo dei mezzi espressivi e il simbolismo delle finalità contenutistiche.
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