Regia di Andrea Arnold vedi scheda film
Mia è una quindicenne rabbiosa e scorbutica: vive in un sobborgo proletario, ha un rapporto conflittuale con la madre menefreghista e la sorellina pestifera (del padre non si dice nulla), si atteggia a maschiaccio per darsi un contegno ed è stata appena cacciata da scuola. Più ancora che Antoine Doinel evocato dalla recensione di Boris Sollazzo, mi ricorda la Rosetta dei Dardenne (anche per l’interpretazione molto fisica di Katie Jarvis): ha dato per persi i legami umani, conta solo su di sé ed è decisa a fare anche il gioco sporco per sollevarsi dal fondo in cui è cresciuta. Nella prima parte si solidarizza con lei, la si guarda con simpatia mentre tenta di sciogliersi, di aprire la sua scorza, incoraggiata dal nuovo compagno della madre che sembra una brava persona; nella seconda vengono fuori i risvolti patologici del suo comportamento, e si rimane spiazzati. La sceneggiatura le toglie progressivamente ogni via di fuga fatta intravedere: si scopre che l’uomo ha una borghesissima famiglia in una villetta suburbana, l’audizione di danza si rivela essere uno squallido provino per un locale equivoco, non resta che andare a Cardiff insieme a un ladruncolo d’auto (almeno, alla fine, Doinel arrivava a vedere il mare); e il risultato è un film deprimente, asfittico, senza neanche l’ombra di una catarsi che non si riduca a ingenuo simbolismo (i cavalli bianchi potevano ancora andare bene in Sciuscià, ma ormai hanno fatto il loro tempo).
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