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Vincere

Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film

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La recensione su Vincere

di LorCio
10 stelle

Il film italiano più stimolante dell’ultimo decennio, probabilmente l’unico assieme a Il divo di cui un giorno si parlerà per cercare di trovare una cifra stilistica del nostro tempo: come nel film di Sorrentino, Marco Bellocchio non solo narra, ma descrive; non pensa solo al significato, ma si concentra anche sul significante. Forse sarà banale decantare le lodi del settantenne autore di Bobbio, ma è sconcertante come il più innovativo regista italiano abbia esordito nel 1965 con un film, I pugni in tasca, che, al di là del valore prettamente artistico (per certi versi è sicuramente datato e qua e là prolisso), fu un pugno nello stomaco e un reale spartiacque nel cinema nazionale (così come lo fu, per altri motivi, La dolce vita, che non a caso si può accostare in qualche modo a Gomorra).

 

Così come nel lontano 1965, Bellocchio (che nel corso di quarant’anni ha trasmesso se stesso nelle sue opere più di quanto possa apparire superficialmente, riuscendo nell’impresa di collocarsi in un proprio posto personale all’interno del complesso e contraddittorio panorama italiano) mette al centro della discussione l’esigenza di ripensare il cinema in un’ottica polifunzionale e multimediale, aspirando all’universalità dell’arte, contaminando generi, stili, tecniche. Nella sua mastodontica essenza, nel suo essere linearmente articolato, con quella durata (più di due ore) che oggi incute paura (come pure quel titolo maschio, pesante, spietato), il film del presente (della sua contemporaneità) Vincere riesce ad essere un film del passato e al contempo un film del futuro.

 

Si è parlato molto delle citazioni cinefile con cui Bellocchio arricchisce la sua opera, da Chaplin fino al cinema futurista e via discorrendo: è una testimonianza della volontà dell’autore di abbracciare un’intera epoca (il Novecento) attraverso l’esegesi e la rielaborazione delle sue avanguardie. Vincere, infatti, è un film d’avanguardia nel senso più puro del termine: guarda avanti, si slancia violento e spavaldo verso l’altrove (che sia solo tempo o spazio poco importa, qui si parla di sintesi spazio-temporale). È d’avanguardia il tono usato da Bellocchio per raccontare questa storia nera, dolorosa, passionale, che paradossalmente è pure pregno di funzionali sguardi all’indietro (Dreyer, nume tutelare, su tutti) che si risolvono in un compendio che sa essere romanzo e saggio (il cinema muto è ampiamente celebrato, senza un briciolo di retorica e con una gioia artistica rara).

 

Vincere è la storia d’amore più crudele vista sui nostri schermi da anni: un amore sbagliato, forse impossibile, rappresentato in quello che è il mèlo più titanico e devastante degli ultimi decenni (qua e là un certo involontario viscontismo lo si può individuare, con qualche accostamento tra la Livia di Senso e la protagonista del film), ricco di pathos, malato e senza via d’uscita. Vincere è un film sul potere che si incanala nelle vene delle persone e le tramuta in animali, tanto attuale (si sprecano riletture ed interpretazioni secondo cui dietro la figura di Mussolini ci sia una critica feroce a Berlusconi) quanto sconfinato (sarebbe riduttivo e quasi umiliante limitarlo ad un discorso sui nostri uomini politici più amati ed odiati del secolo).

 

Vincere è anche un film su Benito Mussolini, sulla sua ascesa al potere e sulle sue crudeltà innanzitutto umane: ma è soprattutto un film su Ida Dalser, la presunta prima moglie del Duce, e su tutto ciò che avviene sia dentro che attorno a lei. Proprio per questo è un compendio bellocchiano, perché, finalmente, il regista trova un equilibrio tale da permettergli di raccontare la psiche con basi psicanalitiche ma con metodi narrativi mai pesanti né invadenti: Vincere è un film analitico che rinuncia all’analisi secca preferendo il racconto vasto, mobile, eterogeneo.

 

Film d’autore totale, di cui Bellocchio ha il controllo totale, costruendo una splendida armonia con i collaboratori: il montaggio nervoso e rapido di Francesca Calvelli, la fotografia cupa ed allo stesso tempo abbagliante di Daniele Ciprì, le musiche monumentali di Carlo Crivelli, le scenografie filologiche di Marco Dentici. Al centro di ogni cosa, le presenze immense dei due protagonisti: il duro e feroce, nevrotico e ripudiato, Filippo Timi da una parte (in duplice veste); e una tormentata, straripante, stupenda Giovanna Mezzogiorno dall’altra.

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