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Il nastro bianco

Regia di Michael Haneke vedi scheda film

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La recensione su Il nastro bianco

di michemar
9 stelle

Cos’è il nastro bianco? È l’emblema della punizione afflitta ai bimbi che sbagliano, è la condanna di color bianco in un mondo grigio scuro.

Un villaggio protestante qualche anno prima della Grande Guerra, apparentemente isolato ma sicuramente un mondo a sé, chiuso, con una comunità di persone grigie, severe, corrucciate, con tanti bambini educati più che severamente. Il titolo originale accenna appunto con glaciale pomposità “Storia tedesca per bambini”. Michael Haneke non si scosta di un millimetro dalla sua visione degli uomini, già fotografata con un racconto ombroso e scostante in Il tempo dei lupi: l’uomo non è cattivo, è semplicemente malvagio. Questo piccolo mondo nel nord della Germania costituito da case sparse nel villaggio, abitato dalla famiglia del barone che dà lavoro nei suoi campi alla quasi totalità degli abitanti è il medesimo piccolo mondo di cui il regista austrogermanico ci racconta da sempre, come se ci stesse ripetendo sotto varie forme la solita storia: è il gruppo dei sopravvissuti affamati de Il tempo dei lupi, è la famiglia de La pianista, la famiglia benestante del terribile Funny Games (per ben due volte), il circolo familiare dell’ultimo Happy End. Ciò che fa impressione (impressione, sì) è la bontà e la dolcezza della voce narrante (che poi sarebbe il maestro della scuola che ci fa da guida nella trama) calma come una nenia rassicurante, nonostante l’asprezza della pronuncia tedesca nella versione originale - quella italiana (Omero Antonutti) è ancor di più tranquillante – che fa da contrasto allarmante alla drammaticità degli avvenimenti che succedono in questo solo apparentemente tranquillo villaggio. Infatti sono troppe e troppo vicine le disgrazie misteriose che succedono: una corda tesa tra due alberi che fanno cadere il medico a cavallo mandandolo all’ospedale, l’incendio al fienile del barone, le sevizie al piccolo figlio di quest’ultimo, la finestra lasciata aperta nel gelo invernale nella camera di un neonato, la tortura ad un bimbo disabile… Non solo non c’è pace, ma nessuno viene a capo dei colpevoli e, cosa che fa rabbrividire, nessuno si preoccupa più di tanto, tranne chi viene colpito da questa o quella disgrazia. Tutto procede, monotonamente, come i lavori stagionali nei campi, ad eccezione del buon maestro e della sua innamorata, uniche persone dall’animo umano che ingentiliscono la storia spaventosa e grigia a cui assistiamo impotenti e inerti noi spettatori.

 

 

Il colore magistrale della fotografia di Christian Berger, che da sempre collabora con Haneke, è un bianco e nero che a volte acceca, altre è buio come l’animo disumano che abita in questo villaggio. La severità educativa e sociale del pastore è l’espressione della mentalità che domina la piccola comunità, ma neanche a lui vengono risparmiati dispetti e quando i sospetti del maestro, vestiti i panni dell’investigatore, si indirizzano a figli del pastore la reazione di questi è tremenda: nessuno in verità ha voglia di guardarsi dentro e darsi una risposta, meglio ignorare e andare avanti. Tranne quando il padre di una famiglia di contadini viene a conoscenza di un misfatto commesso da un suo figlio (tutte le famiglie son numerose) che decide per un tragico epilogo. Se si aggiunge che come sempre l’assenza del commento musicale (caratteristica costante del cinema hanekiano) assurge a co-protagonista il quadro è quasi completo. O quasi, perché il cinema di questo enorme autore non manca mai di sorprenderci, nella sua glacialità, asciuttezza, linearità, morbosa e orrorifica semplicità. L’uomo in fondo non è cattivo: è malvagio. Ce lo ripete da sempre.

 

 

La vita poi continuerà il suo corso, così come avviene sempre nei racconti di Michael Haneke, come è successo nell’ultimo Happy End, dove per esempio il maldestro tentativo di suicidio dell’anziano nonno fa da sfondo al finale ma come possa essere veramente finito il film non è dato di sapere.

 

La recitazione di tutti è adeguatamente austera, perfettamente incastrata nel mosaico della pellicola, e ancora una volta ci si può sbalordire per la perfezione dei piccoli attori, dove, come diceva Vittorio De Sica, con loro si può fare solo brutta figura.

 

Cos’è il nastro bianco? È l’emblema della punizione afflitta ai bimbi che sbagliano, è la condanna di color bianco in un mondo grigio scuro.

 

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