Regia di Michael Haneke vedi scheda film
"Das weisse Band", ossia il simbolo dell'innocenza, della purezza, che nelle età dell'uomo si incontra nei volti acquosi dei fanciulli. Occhi spersi nel grano argentato e un fragore di messi tutt'intorno, farebbero pensare al quadro bucolico di un salubre villaggio della campagna tedesca, ebbro di vita dura ma redditizia, pieno di cose spensierate, come lo è la giovinezza d'altronde. "Das weisse Band" un simbolo sconsacrato, più giogo che ornamento, più nefandezza che nobiltà d'animo. Ho apprezzato enormemente questo film per la pregevole fattura del montaggio e della fotografia. Haneke sceglie un bianco e nero antico, che già rammemora allo spettatore, le scene di un passato remoto e di una storia inusitata. L'assenza di chiavi musicali cala la pellicola nel realismo più assordante e crudo: non ci sono altri rumori se non quelli della vita vera, estrema spedizione nell'abisso delle relazioni umane, senza intromissioni superflue. Le sequenze sono tutte sapientemente innestante su un moto di tensione rampante. La tensione, quella lamina trasparente che vela i volti dei personaggi, orfani del riso. La tensione gioca un ruolo fondamentale nel corso del film, come ad esempio la scena del linciaggio del prete ai due figli maggiori disobbedienti: la porta si chiude, passano i secondi; il ragazzo in attesa della punizione esce dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle, la telecamera riprendo il suo passo cadenzato, mai fragile verso lo studio del padre; impugna la frusta, a ritroso si dirige verso la sala da pranzo, la macchina non si è mossa di un millimentro, ha solo, per così dire, girato la testa; entra dentro la sala, fermando la porta prima di lasciare intravedere lo stuolo dei fratelli che saranno spettatori della flagellazione, la macchina inquadra la porta bianca chiusa, passano i secondi, uno, due, tre, quattro, non li ho contanti ma sono sicuro che devono essere almeno cinque che si inframettono tra la chiusura della porta e lo scoppio del primo grido di dolore. Tensione allo stato puro, nella maniera più spicciola ed efficace che possa esistere. Per non parlare poi del champ contre champ, di cui Haneke fa un vero e proprio abuso nelle scene di colloquio tra il renverendo e i suoi figli: scatto contro scatto, ci si aspetta da un momento all'altro che qualcosa di terribile incendi la scena. "Das weisse Band", la storia della generazione che sarà il braccio del terzo Reich, una generazione raffigurata attraverso i campioni prelevati da un piccolo villaggio di campagna, attorcigliato alla disciplina, soffocato dall'aspro vivere quotidiano. Sebbene, a mio avviso, tutto sia formalmente ineccepibile, e si noti un certo constante aggancio a una poetica visiva affatto nascosta, sono uscito dalla sala inorridito. Se l'intento di Haneke era di documentare, con l'occhio vigile dell'antropologo, la sclerosi di una comunità che di lì a poco avrebbe raggiunto il suo apice di dannazione, tale intento non viene suffragato dalla messa in scena (minuziosa, debordante); se l'intento di Haneke era di "mettere in scena" l'implosione morale di un ambiente ristretto e provinciale, in tempo assai lontano dal nostro, tale intento non viene mai alla luce, rigettato dalla assurdità delle atmosfere e dalla sbrigativa sorte di alcune sequenze (che ho il timore siano state volutamente lasciate in sospeso perché fa più contorsione intelletuale, e qualche critico può bagnarcisi beatamente le fauci); se l'intento di Haneke era di voler smitizzare il candore che connotativamente si associa alla fanciullezza, perché aver scelto un tempo lontanissimo e intatto, perché non aver scelto il qui e ora, come ha fatto altre volte in passato e cito (o meglio ricito) a tal proposito, "Code inconnu" e quella scena, per me, bellissima e scioccante con Juliette Binoche che sibisce la violenza di un giovane magrebino solo e disperato nel vagano del metrò? Io temo che dietro a tutto ciò ci sia la mai doma riverenza a certi ambienti cinematografici, che prediligono il labor limae piuttosto che curarsi dell'anacronismo di certe storie. Non lo so forse quando avrò il coraggio di rivederlo cambierò opinione, o forse devo ammettere in tutta franchezza, che questo non è un film nelle mie corde (può succedere), ma sinceramente non ho visto la necessità di questa galleria lunghissima ed estenuate di vicende grottesche. Anche riuscendo a capirne le suggestioni non credo che possa esistere cinema più freddo di questo, arido e glaciale, percorso da una incessante tensione, come si trattasse del ghiaccio gelido di una banchina al polo sferzata da un vento affilato che non dà via di scampo.
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