Regia di Peter Jackson vedi scheda film
Attorniata dagli “amabili resti” dei suoi più stretti legami affettivi, Susie vive… e si cimenta nel racconto più liberatorio della sua… vita.
Chissà quante volte il cinema ha sfruttato il voice over di una persona scomparsa, per sempre. Che io sappia, nel pluripremiato American Beauty e… in Amabili resti. Un film molto, molto particolare; forse troppo, però. Di sicuro un film che non lascia indifferenti (Stuntman Miglio), ergo da vedere. Un film diretto (da P.Jackson) in maniera esemplare nella prima parte, quando la naiveté ha ancora un nome ed un cognome (Suzie Salmon, alias la bravissima Saoirse Ronan) e ha radici che affondano saldamente in questa terra. E quando la mdp di P.J. si fa delicatissimo filtro che sfrutta tutta una tavolozza di colori per sfumare uno spicchio di mondo con i colori di una fiaba, tutta da narrare; tutta da vivere.
Ma se già sappiamo che la favola virerà (troppo presto, ahimè) verso tonalità oscure (per fortuna - viene, però, da pensare - visto che P.J. - maestro dell’horror un po’ macabro e scabroso - si concede inquadrature magistrali che scrutano l’orrore che si protegge dietro i veli della quotidianità ed esalta uno S.Tucci di una bravura “mostruosa”), quello che non sappiamo è quale tipo di destino new age ci attenderà nel limbo che lambirebbe questo mondo. E, purtroppo, da quel momento in poi, candore e tenerezza (sprigionati, in primis, dai radiosi occhi di Susie) si perderanno con lei, in una zuccherosa, favolistica visione dalle tinte color pastello (bradipo68) decisamente eccessive; l’onirico e paradisiaco universo parallelo in questione viene immortalato da una fotografia ed una scenografia il cui indubbio fascino tracima e si dilegua in scene dispersive e lontane dal filo logico (toni70) della storia, che si ingarbuglia e si contorce. E si ritorce (a danno nostro).Lo spaesamento per un incantevole spettacolo visivo (ma non visionario: ROTOTOM) viene di certo assicurato, ma a detrimento del fragile equilibrio fra un’irrealtà da sogno e una realtà da incubo.
Un contrasto, per di più, dilatato a dismisura nel finale, completamente inebriato di melliflue sensazioni ultraterrene (proprio quando la misura dell’orrore è, viceversa, ormai colma). Sennonché, il finale medesimo si risolleva, a tratti, in alcune scene davvero intensissime, come nel caso della sequenza nella casa di Harvey/Tuccy, o nell’ultimissima, la quale marca un territorio saldamente ancorato a questa (la nostra) dimensione, ben poco edulcorata e, per una volta, conforme al più brutale senso di giustizia (cui tutti, più o meno inconsciamente, aspiravamo… e, forse, aspiriamo). Una “riconciliazione” meramente “metafisica” fra le brutture del mondo e l’innocenza rubata (che stenta a dissolversi) non avrebbe appagato… anima viva.
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