Regia di Peter Jackson vedi scheda film
“Amabili resti” tratta la storia di Susie Salmon (Saoirse Ronan), uccisa a 14 anni da un vicino di casa nel 1973, ossia “quando ancora i volti dei bambini scomparsi non erano sui cartoni del latte”. Stanley Tucci, un serafico Hitler che da lontano somiglia all’attore Massimo Lopez, interpreta il signor Harvey, acqua cheta che come nella migliore tradizione dei serial killer è arguto quanto subdolo. Complice anche una squadra di polizia non proprio all’altezza, i poveri coniugi Salmon (Mark Wahlberg e Rachel Weisz) non avranno la giusta collaborazione per scoprire il colpevole, tanto che per elaborare il lutto dovranno giocoforza affidarsi all’eccentrica nonna (Susan Sarandon), con pelo sullo stomaco e grande personalità.
Seguendo quasi fedelmente le orme del romanzo di Alice Sebold, il film esperisce giusto i tratti necessari per la caratterizzazione di Susie e della sua perfetta famiglia, prima di tuffarsi sulla fase dell’adescamento e dell’omicidio, analizzando poi tutta la fase successiva alla dipartita della dolce Susie. Nella descrizione degli eventi, Peter Jackson si concentra con particolare dovizia sul momento del trapasso, narrandolo con straordinaria sensibilità. Il regista della trilogia dell’anello stupisce per la capacità di saper creare la giusta suspense; Jackson lo fa sia sfruttando l’atmosfera torbida tipica di un certo tipo di America di periferia, sia soprattutto padroneggiando con maestria quei meccanismi che dimostrano che, prima di dirigerli, Jackson i migliori film del genere thriller se li è ripassati ben bene al videotape (basti pensare ai tempi di narrazione, ai falsi indizi sparpagliati, alla concentrazione sui dettagli). In particolare sono 3 i momenti di tensione davvero epici: quello in cui l’assassino e la vittima sono faccia a faccia (con la consapevolezza della ragazzina che cresce sempre più), quello in cui i poliziotti fanno visita al signor Harvey e quello in cui la sorella della vittima si decide a cercare gli indizi giusti.
Jackson stavolta spende tutto il suo budget concentrandosi sulla scenografia e gli effetti speciali, dipingendo con straordinaria efficacia quell’interstizio dimensionale che non è più l’aldiquà e non è ancora l’aldilà; non un purgatorio, ma una sorta di limbo in cui si spende il proprio tempo per prendere consapevolezza del trapasso (da entrambi i lati). La grandezza di Jackson sta proprio nel mettere in immagini questo tempo dell’elaborazione del lutto, nonché nel creare un efficace, sottile gioco di rimandi tra la dimensione materiale e quella spirituale. L’happy end è salvifico, ottimista e molto più che doveroso. È proprio il caso di dire che questo film ci fa vedere il paradiso (cinematografico).
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