Regia di Gian Paolo Cugno vedi scheda film
Che il ritorno alle origini, le proprie, sia ultimamente la strada più battuta dagli autori nostrani, ce n’eravamo già accorti con Baària di Tornatore e L’uomo nero di Rubini. Il che non necessariamente assume una valenza negativa (quella, cioè, di non saper guardare al di là del proprio naso), ma anzi può rappresentare lo step giusto da cui partire. Deve aver pensato questo, sbagliando, l’ambiziosissimo Gian Paolo Cugno. Perché La bella società (titolo, tra l’altro, assolutamente fuorviante) risulta essere nient’altro che un’accozzaglia ingestibile di generi, filoni narrativi (uno più drammatico di quell’altro), frammenti biografici e non, scopiazzati (e male) qua e là (tra gli altri, Io non ho paura, Il grande sogno, La prima cosa bella, Tre fratelli...). Unico collante è il tragico incidente che incatenerà tra loro con un legame morboso due fratelli siciliani, Giuseppe e Giorgio, cresciuti senza genitori durante la seconda metà del Novecento. Cugno, ispirato a suo dire dalla tragedia greca, la restituisce con un affresco storico corale sgraziato se non imbarazzante, affidato quasi esclusivamente a una colonna sonora altrettanto stonata e a un cast noto ma mai così deludente. Ci vuol ben altro per permettersi il lusso di pensare in grande.
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