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Nel paese delle creature selvagge

Regia di Spike Jonze vedi scheda film

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La recensione su Nel paese delle creature selvagge

di ROTOTOM
8 stelle

Being a child.
Dentro la testa di un bambino di una normale famiglia americana. Quella nella quale sovente manca un pilastro all’impianto affettivo che fa inclinare il piano reale della psicologia del bambino verso una ricettività fantastica protettiva e sostitutiva di quella realtà che non riesce a comprendere e dalla quale non sa farsi accettare.

Max è molto sensibile, fantasioso, geloso delle attenzioni della madre al nuovo compagno, desideroso di una guida verso il mondo del pensiero adulto da parte della sorella, impegnata a trasformarsi in donna.

Nella sua camera un mondo di pupazzi e luoghi fantastici. Un vestito da lupo.

Spike Jonze riadatta un microracconto per bambini di Maurice Sendak  tratteggiando in maniera sublime l’età della trasformazione e la perdita dell’innocenza in un film di rara bellezza. Racconto per immagini che è tutto metafora intelligente quanto visionaria, inquietante come qualsiasi paese sconosciuto abitato da esseri sconosciuti. Sensibile come solo un bambino sa essere intimamente solo nella propria sensibilità, il regista sceglie una messa in scena minimalista fatta di silenzi e sguardi. Intensità liquida in una fotografia tutta naturale, fotografia sporca, tanta camera a mano. A mano libera.

La fuga di Max che si perde nelle strade nella notte,  fuggendo dai rimproveri della madre è l’inizio del viaggio di formazione all’interno delle proprie fantasie che fino ad allora l’hanno dominato, com’è giusto che sia. L’implosione dentro se stesso e la successiva alienazione sono a portata di mano, la psiche dei bambini è fragile quanto un cristallo. Questa consapevolezza latente rende il film di Jonze molto profondo nonostante l’apparente semplicità della messa in scena, dimostrando di conoscere molto bene le dinamiche psicologiche che stanno dietro il processo di crescita, nel momento in cui l’essere umano sterza decisamente il proprio io verso quello che sarà definitivamente.

Quello che è straordinario è come queste condizioni vengano espresse visivamente. Il paese delle creature selvagge è un’isola nel mare alla deriva dall’approdo reale, mare affrontato con una silenziosa barca a vela. Le creature sono grossi pupazzi dall’aspetto ambiguamente inquietante degli animali antropomorfi e rappresentano le varie sfaccettature della personalità di Max in magmatico contrasto tra loro per la supremazia, creature di cui Max giustamente si proclama Re.

La percezione del tempo si ferma, il racconto perde ogni aggancio con un qualsiasi appiglio realistico e un vago senso surreale si impossessa della storia.

Sull’isola Max se la deve vedere con le proiezioni di se stesso, caratteri in forte contrasto tra loro come forti e spaventosi sono le creature che danno vita a quelle proiezioni. Teneri e spaventosi al tempo stesso, umorali, sorridenti a scoprire i lunghi denti, amichevoli ma con le zampe pesantemente artigliate.
Aggressività, timidezza, parte femminile, ragione, amore, amicizia vengono sublimate in giochi di gruppo, interazioni sociali, litigi, incomprensioni. Scene sorrette da un filo logico molto sottile che non riesce a determinare con esattezza il genere al quale il film appartiene.
Nella rarefatta sceneggiatura (dello stesso Jonze) nulla viene articolato in modo palese delegando in toto alle immagini il compito di veicolare quelle emozioni, quelle paure, quelle fantasie infantili fatte di ombre e esseri immaginari provate tanto tempo fa. Emozioni che tornano a galla smosse da sotto il  peso di anni di vita vissuti a considerare plausibile una fetta sempre più magra di percezioni, sempre più utilitaristiche e adulte. Per questo il film non può essere visto dai bambini più piccoli, perché la messa in scena è volutamente inquietante, cupa e triste. E’ indefinibile e terrorizzante per chi sta affrontando lo stesso percorso di crescita del protagonista e come ogni fiaba che si rispetti (Disney insegna) utilizza tratteggi rassicuranti per poi modificarli in qualcosa di spaventoso. 
Il contesto naturalistico è in effetti l’azzeramento delle architravi del mondo adulto che sorregge la propria esistenza passando via via crescendo dalla consistenza della creatività all’effimera sicurezza delle opere, degli oggetti, delle barriere.
L’isola è scarna, brulla, sassosa quanto lussureggiante, selvaggia e boscosa, è la metafora della verginità della psiche infantile. Non a caso il primo tentativo di Max di divenire adulto è la costruzione di un castello, trovare un equilibrio, posizionare le proprie fantasie  in un contesto senza sopprimerle e senza esserne soppresso. L’isola è a tutti gli effetti “l’isola che non c’è” dalla quale si può anche non ritornare rimanendo per sempre dei peter pan irrisolti, divorati dalle proprie paure oppure come dice l’alter ego di Max nel momento in cui egli decide invece di tornare a casa, “sei l’unico Re che non abbiamo mangiato”.  

A casa, dopo il viaggio di ritorno lo sguardo del bambino nei confronti della madre è straordinario per intensità e consapevolezza. Non servono parole, solo un controcampo sui volti, il silenzio e le creature selvagge che lo ricordano con affetto, illuminandogli gli occhi scuri.

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