Regia di Davide Sibaldi vedi scheda film
In un anonimo motel danese, va in scena (e a confronto) la solitudine di due persone. Due italiani, un uomo e una donna, lui un ragazzo di buona famiglia (così sembra), lei una prostituta per scelta («è un lavoro come quello in fabbrica, con la differenza che si guadagna di più»). Entrambi sono in fuga da qualcosa (o qualcuno) perché a loro volta sono stati abbandonati, coerentemente con la regola non scritta secondo cui più si scappa da una cosa più si diventa come quella. Classico rituale del circolo che si autoalimenta per via di quel cordone ombelicale che non si riesce e non si vuole recidere, perché fa comodo avere un alibi, perché è più facile soccombere e lasciarsi trasportare alla deriva, oppure nascondersi dietro al dito sottile della convinzione secondo cui la vita è solo nostra e non anche di tutti coloro che con noi l’hanno vissuta. Prova impegnativa e sofferta per i due protagonisti, uniche comparse di questa opera dall’impianto sfacciatamente teatrale, imperfetta ma coraggiosa, un grido di dolore e nello stesso tempo di speranza. Perché non si resti attaccati alle ombre. Ma le si sorpassi.
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