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Segreti di famiglia

Regia di Francis Ford Coppola vedi scheda film

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La recensione su Segreti di famiglia

di Peppe Comune
8 stelle

Bennie Tetrocini (Alden Ehrenreich) arriva a Buonos Aires per incontrare il fratello maggiore Angelo (Vincent Gallo) che non vede da oltre dieci anni, da quando lasciò New York e la famiglia a causa delle insanabili incomprensioni con il padre, Carlo Tetrocini (Klaus Maria Brandauer), un direttore d’orchestra di fama mondiale. Nonostante la lunga assenza, Angelo è rimasto per Bennie un punto di riferimento insostituibile, poi il ragazzo si fa forte di una vecchia promessa del fratello, che in una lettera gli lasciò scritto che sarebbe ritornato per portarlo con se. Ma quello che incontra Bennie non è più Angelo ma Tetro, il nome con cui tutti lo conoscono in Argentina, un uomo umorale che sembra custodire dentro un segreto inconfessabile. Tetro vive con Miranda (Maribel Verdù), lavora come tecnico delle luci in un piccolo teatro cittadino e scrive testi teatrali che non convincono mai totalmente Alone (Carmen Maura), un importante e molto influente critica letteraria. Con l’aiuto di Miranda, Bennie cerca di penetrare il mondo enigmatico del fratello, partendo dagli scritti autobiografici che Tetro non vuole in alcun modo dare alla luce.

 

 

“Segreti di famiglia” di Francis Ford Coppola è un film che riflette sulle distorsioni emotive scaturite da legami familiari vissuti in una maniera troppo totalizzante. Ho letto da più parti che è un film molto intimista, “il più autobiografico” dell’autore italo-americano, non saprei, non sono troppo addentrato nelle cose della famiglia Coppola. Quello che si percepisce è certamente una voglia di raccontare e di raccontarsi in piena libertà, il tentativo di fare del film un potente affresco familista carico di venature barocche, omaggiando il modo di fare cinema in maniera originale pur rimanendo attendibile nella caratterizzazione psicologica dei personaggi.

“Segreti di famiglia” è un noir che si apre ai colori incandescenti dei ricordi, uno scandaglio dell’animo che finisce per somigliare molto da vicino ad una sorta di seduta psicanalitica aperta al pubblico. Un film di una violenza sottomessa, che non indietreggia di un millimetro di fronte alla possibilità di mettere in evidenza tutto il male che può sorgere dal rapporto padre-figlio per il solo fatto di mancare di un requisito essenziale : la fiducia incondizionata del primo nel credere nelle legittime aspirazioni del secondo. Ed è per questo motivo che il film investe molto sul valore simbolico della luce (quella dei riflettori dei teatri per esempio, o il riferimento al lavoro di Tetro), che è come se fosse l’elemento utilizzato per far vedere meglio in mezzo al buio dei sentimenti, ad illuminare il percorso a tappe che svela poco per volta i contorni enigmatici di una storia familiare molto complessa. Un melò in nero, insomma, tutto centrato sul rapporto circolare tra padre, figlio e fratello, tre entità che si guardano vicendevolmente allo specchio e che vicendevolmente si fanno riflesso delle reciproche esistenze. Fondamentale è naturalmente il rapporto rancoroso che Tetro vive con il grande padre musicista, esemplificato stilisticamente da Coppola attraverso un contrasto cromatico che alterna, al bianco e nero della traccia narrativa principale, i colori sgargianti che connotano il flusso dei ricordi. Il qui e ora di Tetro, caratterizzato da un bianco e nero accecante che si fa specchio del suo fiero isolazionismo, viene posto continuamente in relazione con un passato che rappresenta l’unità di misura di quello che poteva essere e non è stato. “Mio padre era un amante senza amore, un poeta senza poesia”, sentenzia Tetro, che con queste parole esplica tutta la sua rabbia verso un padre che era più preoccupato della sua immagine pubblica che dell’andamento privato della sua famiglia, più del suo successo come musicista che della gratuita devozione da dedicare ai figli. A Tetro è mancato un padre complice che sapesse assecondarlo nella sua originale attitudine letteraria, che non gli dicesse freddamente che nella famiglia Tetrocini “non c’è spazio per un altro genio”. Non gli è mancato un padre presente, ma una presenza che non lo facesse sentire inopportuno. Tetro decide di scappare lontano per non soccombere definitivamente, per liberarsi dell’ombra ingombrante di un padre patriarca che vive imprigionato nel suo narcisismo. Ma cerca di emanciparsene senza recidere del tutto il cordone ombelicale, si è votato decisamente contro quella vita, ma continua a vivere per essa. Il flusso dei ricordi gli procura dolore ma gli genera l’impulso a confidare solo alla sua penna la natura effettiva della propria tormentata esistenza, rappresenta insieme un momento di regressione psicologica e di ascesi spirituale. Detto altrimenti, la sua precarietà emotiva è quella tipica di chi intende combattere il proprio nemico deputato scendendo sul suo stesso terreno e usando le sue stesse armi. Altrimenti, non si spiegherebbero, ne l’ambizione contrastata di diventare o meno uno scrittore di successo, ne il rapporto con Bennie, che oscilla tra il protezionismo soffocato e l’aperta ostilità, e neanche il fatto che Tetro se ne va a vivere proprio a Buenos Aires, la città natale di Carlo Tetrocini, quella da cui era partito verso gli Stati Uniti una volta diventato un celebre musicista.

Proprio in mezzo a questo rapporto contrastato lungo un’intera esistenza, si pone la figura fragile di Benjamin Tetrocini, un elemento catalizzatore venuto ad aprire porte che si volevano tenute chiuse, a far riemergere ferite che si vorrebbero cicatrizzare una volta e per sempre. Così, senza che ne abbia una reale intenzione, solo con la forza della sua presenza, e non solo perché rappresenta un legame concretissimo con quella famiglia che Tetro ha deciso di abbandonare, ma per il modo naturale con cui incarna quelle domande minacciose segregate nel cuore a cui non si vorrebbero mai dare delle risposte. Bennie non ha assaggiato per intero la calcolata inaffettività del padre padrone, ma l’istinto filiale lo porta a mettersi alla ricerca di quel fratello scomparso dieci anni prima, che rappresenta un punto di riferimento imprescindibile, un esempio da seguire nonostante tutto. La figura paterna capace di dargli protezione. Ma chi si trova di fronte è una persona totalmente da scoprire, un uomo meditabondo che ha poca voglia di mettersi a fare il fratello affettuoso prodigo di buoni consigli. Ciò che scopre è il prodotto cancrenoso dell’egocentrismo narcisista di Carlo Tetrocini : un uomo problematico che ha scelto di scappare dalla famiglia portandosi dentro un carico di misteri difficili da penetrare. Misteri che Benny scopre essere condensati in degli scritti codificati che possono essere portati alla luce solo da chi è sintonizzato lungo la stessa lunghezza d’onda dell’autore. Come i segreti che possono essere svelati solo da chi ha avuto la forza di custodirne da solo tutto il peso.

“Segreti di famiglia” rappresenta un film a suo modo atipico all’interno della fulgida filmografia di Francis Ford Coppola (qui anche sceneggiatore e produttore), certamente privo della tipica magniloquenza autoriale che l’ha reso grande, ma più libero di osare in leggerezza, di praticare la citazione esibita (“Scarpette rosse” di Michael Powell ed Emeric Pressburger). Pur non raggiungendo lo stesso esito qualitativo, è assimilabile ad un film come “La conversazione” (il mio preferito in assoluto tra i film di Coppola) per quell’impurità stilistica che fa aderire bene il senso del narrato con la messinscena adottata. Ottimo film in cui spicca per distacco l’interpretazione allucinata del bravo Vincent Gallo.           

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