Regia di Francis Ford Coppola vedi scheda film
Due tra le opere più interessanti degli ultimi tempi sono accomunate dal fatto di essere state presentate al 62-esimo Festival di Cannes, ma soprattutto di essere state girate in bianco e nero. Una cifra stilistica che, se da una parte viene scelta per esaltare certi modi di ritrarre i personaggi e il contenuto delle storie grazie a una fotografia vivace e/o tagliente (quella de “Il nastro bianco”, per intenderci), dall’altra ci fa sorgere qualche considerazione.
Come ha detto Francis Ford Coppola: “Il cinema di oggi sembra rendere illegale tutto ciò che non è a colori”. Ma c’è di più: sembra che per rappresentare le brutture e le fatiche relazionali del presente l’unico modo (o quantomeno quello più efficace) sia quello di un ritorno al passato, come se il cinema avesse bisogno di guardarsi bene allo specchio per ritrovare una propria identità, un segno tangibile della sua individualità.
Magari all’inizio avrà bisogno di reggersi un po’ sulle stampelle, prima di proseguire nel lancio senza paracadute o senza ritorno che sembra promettere l’ammaliante mondo delle tecnologie in 3D (viste da Coppola come estremamente limitative e ritenute un linguaggio morto prima ancora di nascere). Ciononostante non si può non fare i conti con quel cinema prettamente commerciale che, nell’ultimo week end di programmazione, ha cancellato dalle sale il film dell’autore americano trionfando senza storia.
E se il bianco e nero di “Segreti di famiglia” rappresenta il presente, il passato viene raccontato a colori e a schermo ridotto a sottolineare la lontananza e la forzata rimozione di ciò che è già avvenuto, in una serie di “Infinity lies” ben supportate dall’utilizzo di una macchina a mano quanto mai preziosa. La storia è quella del giovane Benjamin, quasi diciottenne, che va a trovare il fratello Angelo (adesso conosciuto come Tetro). Benny lavora su una nave da crociera come cameriere e nel tentativo di riavvicinare la figura di Angelo/Tetro si ritrova di fronte a una porta chiusa a chiave. Il ragazzo ha addosso la febbre del viaggio presa dal fratello fuggito ufficialmente di casa per andare a fare lo scrittore. Proprio come ha fatto lui lasciando il padre, considerato uno dei più grandi direttori d’orchestra.
L’ultimo Coppola ha la stessa precarietà delle scarpe lasciate appese a prendere aria, è un verso libero che non fa rima e non ha un numero fisso di sillabe, sottolinea l’urgenza di un ritorno al passato per vedere meglio l’oggi ma lo fa senza lasciare sufficientemente spazio alla modernità di linguaggio, soprattutto quello del copione. Diventa così inutile tagliuzzare collericamente i “modaioli” vestiti di Armani, distruggere le chitarre e scrivere al contrario per mettere in discussione l’espressività dell’Arte. Tra le altre cose che vanno in frantumi c’è il rapporto col padre padrone Klaus Maria Brandauer: dispotico, assolutista e cinico, soffoca i desideri artistici di Angelo umiliandolo nelle sue aspirazioni da romanziere.
Lo schermo si riempie di luci abbaglianti e di flash illuminanti di ambulanze e macchine della polizia tutte le volte che Tetro torna indietro con la memoria, un modo per richiamare il suo trauma vissuto alla guida di un auto con accanto la madre soprano cantante d’opera. Da qui la sua “semplicistica” rimozione verso le opere d’arte rappresentate in versi a teatro.
Tutta la parte relativa al Festival di Patagonia è acquosa e dispersiva, l’obiettivo e il nucleo del film si sciolgono ai piedi dei ghiacciai sudamericani. Subentrano un pizzico di dissonante glamour, discrepanze nello scritto fattosi improvvisamente spettacolare e meno intimista, sfacciati aspetti melodrammatici sorretti da un ribaltamento dei ruoli del quale non se ne sentiva il bisogno. Come se Coppola avesse ceduto alla tentazione di inscenare un teatrino delle più ovvie implicazioni psicanalitiche.
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