Regia di Francis Ford Coppola vedi scheda film
E’ paragonabile a una lunga, sofferta seduta di autoanalisi, questo magnifico film (dove la forza terapeutica della ricognizione e dell’indagine conoscitiva, è tutta contenuta nelle affascinanti attrazioni avvolgenti delle immagini) che ha tempi, ritmi e pulsioni che rimandano direttamente ai miti della tragedia greca.
E’ paragonabile a una lunga, sofferta, faticosissima - e soprattutto liberatoria - seduta di autoanalisi, questo magnifico film (dove la forza terapeutica della ricognizione e dell’indagine conoscitiva, è tutta contenuta nelle affascinanti attrazioni avvolgenti delle immagini) che ha tempi, ritmi e pulsioni che rimandano direttamente ai miti della tragedia greca, persino nelle implicazioni ancestrali che vi si scorgono disseminate dentro a piene mani, ma con un aggiornamento tematico che non ha niente da invidiare alle ambigue tensioni hollywoodiane dei melodrammi anni ’50, con le quali si fondono con perfetta adesione stilistica, a partire proprio dalle “torbide” atmosfere alla Tennessee Williams (che richiama solo nella sostanza, ovviamente, non certo nella forma), fra flashback vorticosi e visionari forward che rappresentano i pezzi di un puzzle drammatico e tormentato che lentamente e “magicamente”, si ricompongono sotto i nostri occhi curiosi e smarriti allo stesso tempo come in un gioco di scatole a incastro, per riconsegnarci l’integrità di un quadro straziato di straordinaria pregnanza empatica.
Anche qui, nella scena iniziale, Bennie, il fratello più giovane, scende dal suo “tram che si chiama desiderio” (che è poi quello di ritrovare il fratello Angelo e di riappropriarsi così di un rapporto agognato e da troppo tempo “disperso” che spera gli possa portare una più veritiera conoscenza del suo passato, e soprattutto delle sue origini) e si trova immediatamente catapultato in un dramma molto più grande di lui che lo condurrà progressivamente a spalancare molte di quelle porte rimaste per troppo tempo sigillate da una coltre di “dolorosi” ricordi negati (ed è una “suggestione” anche visiva che tento di veicolare, perché il film di Coppola è davvero zeppo di porte ermeticamente “serrate” dietro le quali si nasconde il “mistero”).
Lo scenario inedito, è quello di una Buenos Aires da sogno (quasi una proiezione “teatrale” dell’immaginazione, per quanto è - al tempo stesso - artificiosa e reale nella sua palpabile fisicità un po’ fittizia) filmata con tutte le sue tangibili contraddizioni, a riflettere con perfetta aderenza – come in un gioco di specchi - proprio la dimensione enigmatica dei personaggi tratteggiati dall’Autore, solitarie presenze segnate da una pericolosa, profonda propensione verso un isolamento emarginato un po’ paranoico, proprio per il terrore concreto di doversi arrendere all’evidenza devastante della rivelazione, che un ritrovato “contatto” potrebbe stimolare, che è poi in concreto la paura di non avere sufficiente forza e altrettanto coraggio per adattarsi a una realtà indubbiamente incomprensibile e minacciosa, ma che è anche la sola “certezza” che consentirebbe davvero di riappropriarsi di una più veritiera e accettata “riconoscibilità” degli eventi traumatici del proprio passato e di farli così diventare l’ingombrante ma necessario bagaglio della propria identità finalmente recuperata… E dietro a tutto questo, si intravedono da subito – e piano piano prendono forma – i traumi e i grovigli psicologici di una famiglia con troppi geni incompresi e altrettanta esuberanza di scheletri nascosti nell’armadio, tiranneggiata da un demiurgo padre-padrone (lui davvero “compreso” ed osannato anche troppo) che ha concentrato su di sé la luce di tutti i riflettori disponibili per illuminare la scena della vita e dell’arte oltre che dell’amore.
Il realismo conformizzato di questo complicato e contorto dramma (anche qui c’è il ritrovamento di un manoscritto - non in una bottiglia questa volta, ma gelosamente conservato dentro una valigia – che darà poi la stura a quel certosino lavoro di “rilettura degli eventi” che farà comprendere quanto sia in effetti potente la forza distruttiva – più che consolatoria – delle radici), è sublimato da una strepitosa, abbacinante fotografia di un bianco e nero quasi elettrico (fra le più belle viste negli ultimi anni, densa di chiaroscuri contrastati e di tutte le sfumature “colorate” dell’immaginazione) fatto di ombre e di luci a volte frastagliate, altre rigidamente circoscritte (come quei coni che illuminano il percorso di Bennie che porta a spasso il cane, che fanno diventare il marciapiede della strada un palcoscenico “scenograficamente” accattivante dove non potrà che irrompere – come poi accadrà veramente – un elemento dissonante e imprevisto - l’incidente - che nella cruda “verità” di una scena davvero “filmata da Dio”, ci farà sobbalzare sulla sedia, come se fossimo anche noi lì sul posto, testimoni in diretta dell’avvenimento. Buenos Aires (o meglio i suoi angoli nascosti, così trasfigurati dalle luci, la sua fauna i suoi locali), diventa allora ancor di più, il luogo privilegiato che fanno di Tetro (più adeguata e stimolante la scelta originale, rispetto alla patetica e un po’ riduttiva rititolazione in italiano in Segreti di famiglia, di una banalità davvero sconcertante) un’opera innovativa e inimitabile di spiazzamento rétro, in cui varie età (e forme) culturali del ‘900 sembrano fondersi in pura avanguardia (...) dove la raffinatezza della forma si esalta soprattutto nel calor bianco dei contenuti (Massimo Lastrucci), perchè il film si rivela davvero come uno stimolante viaggio dentro i labirinti della creatività, un’opera classica e solenne al tempo stesso, spesso sospesa tra un corposo realismo e l’oniricità della “rappresentazione” esasperata che prende a volte la foggia ed i colori pastosamente “sgargianti” con i suoi gialli, i suoi rossi porpora e la struggente levità dell’indaco (e le cadenze ritmiche delle trasognate immagini che debordano spesso nel “balletto” dell’esistenza) di un indimenticato cinema alla Powell/Pressburger, con uno sguardo persino un po’ “citazionista” nei suoi confronti (Scarpette rosse, Scala al Paradiso e soprattutto – ovviamente - I racconti di Hoffmann)ma per approdare poi ad innovative rivoluzioni del linguaggio paragonabili a quelle di un Orson Welles d’antan, rielaborate però attraverso quelle personalissime “confessioni bugiarde”, di un Fellini con minori nostalgie e narcisismo, ma con immutata perfidia, che diventano personali, piccole, irrinunciabili vendette (la parodia e la derisione dei cerimoniali “dell’arte”, per esempio, che assume il tono di un pamphlet accusatorio nei confronti di un mondo avariato e infido come quello dello spettacolo, con i suoi rituali, i premi, e soprattutto la censura e le imposizioni) in questa progressiva ricognizione dentro le catene della colpa costruita e rivissuta attraverso le suggestioni del ricordo che assumono la forma di vere e proprie alterazioni della memoria (quando si modifica appunto anche il formato dello schermo come se si stesse proiettando “un altro film”) e i condizionamenti sentimentali della vita.
Questa è davvero pura grandezza del cinema (nella composizione delle immagini, nella impaginazione delle emozioni), una ardita opera sperimentale insomma, che è anche un saggio di sfolgorante bellezza dentro le ossessioni coppoliane realizzato con un percorso un po’ accidentato e a ostacoli, che, gettando il suo sguardo indiscreto e impietoso su matrimoni, lutti e rancori, spazia dal dolore alla incomunicabilità nella distanza (Domenico Barone) per altro sorretto e soggiogato da un tessuto intricato fatto di omissioni e incomprensioni e dominato da una forza sotterranea ed ossessiva che travalica azioni e personaggi, una fitta ragnatela di emozioni che il regista ci regala con il melodramma barocco e parzialmente autobiografico che ha così ben orchestrato (è una storia familiare e si sa quanto il tema mi sia caro: in fondo continuo a fare cinema perché ho una moglie, una figlia, un figlio, dei nipoti con cui discutere esattamente come ho sempre fatto con mio padre, mio fratello, mia sorella… E nel fare ciò finisco di parlare di me attraverso il cinema. Se poi si vuol sapere in che percentuale la storia della famiglia di Tetro è in qualche modo quella della mia, mi viene da rispondere: tutto quello che c’è nel film è vero, ma non è mai accaduto” ha dichiarato nel corso di una intervista).
Una di quelle imprese, insomma, che - si può ben dire - “sgorgano dal cuore”, e sono fatte davvero “di carne e sangue”… o più semplicemente, invece, forse “soltanto” la seconda parte - quella più emozionalmente empatica però - di un “Diario della vecchiaia e dello scavo dei sentimenti” (Duellanti)iniziatoproprio con Un’altra giovinezza. Il nuovo capitolo insommadi una storia in divenire che vive di passato (in ogni personaggio c’è proiettato infatti qualcosa di Coppola e del suo percorso: la malinconia degli affetti perduti e mai riconquistati di Giardini di pietra, tanto per fare un esempio, sia pure vivificato in differenti forme e prospettive, e non sono io che me lo invento, poiché anche questo è stato apertamente ammesso dal regista, ironicamente schivo a rilasciare commenti definitivi che diventano “sentenze”, visto che per lui non sono sicuramente le parole che devono fornire la certezza dell’univoca interpretazione - e men che mai questa volta- ma semmai deve essere la forza dell’opera realizzata a farlo, aprendosi persino a inedite e impreviste prospettive che solo lo spettatore attento o il critico davvero illuminato può cogliere o intravedere fra le pieghe e che vanno ben oltre persino alle intenzioni “dichiarate” dall’autore).
Il film questa volta è davvero “tutto suo” (soggetto, sceneggiatura, regia, produzione, e persino la distribuzione negli Stati Uniti), come personali sono i riferimenti “alle tragedie” anche reali (la morte del figlio per esempio, che echeggia prepotente) ma traslati e resi rarefati, spesso ricorrendo a un’enfasi quasi operistica, utilizzando proprio tutta l’energia del cinema, fatta oltre che di immagini, anche di luce (vedi la sequenza del viaggio in Patagonia con quei lampi luccicanti simili a magici flash, che si sprigionano dalle cuspidi ghiacciate delle montagne sovrastanti) e di suoni (anche l’utilizzo della musica è particolarmente empatico, fatto di ardite contaminazioni, fra folclore argentino e “classicità” e non solo per i brani direttamente evocati dalla storia e dai sogni fra Coppella, e Hoffembach appunto, come dimostra lo straordinario uso che viene fatto del Coro a Bocca Chiusa dalla Butterfly di Puccini nella scena rievocativa del passaggio di Angelo/Tetro dalla clinica per alienati mentali, sufficiente davvero per farne apprezzare tutta la capacità espressiva che riesce a far parlare oltre che le immagini, persino le note, così da inserirle direttamente come elemento dinamico di rappresentazione).
La recitazione poi è ugualmente impeccabile da parte di tutto il team degli interpreti: l’ambigua sofferenza di Angelo/Tetro resa magnificamente da Vincent Gallo, alla quale si contrappone la altrettanto bellissima prova tutta interiorizzata del giovane Alden Ehrenreich e la corposa caratterizzazione “innamorata” di una bravissima Maribel Verdù (per me una vera e propria rivelazione). Ma davvero tutti, fanno la loro parte con professionale dedizione e profonda aderenza, dalla perfida critica teatral/letteraria di Carmen Maura a Klaus Maria Brandauer nel doppio ruolo del padre e dello zio, a tutti gli altri azzeccati interpreti, fino a una ritrovata (per me) Francesca De Sapio nel ruolo marginale della sorella.
Ma soprattutto è la regia che conta… e che piacere allora rintracciare intatti sia il valore che la volontà di mettersi in gioco, di questo grande vecchio inossidabile, con le sue inimitabili escursioni emotive che comprimono in un’unica sintesi di ineccepibile forma, la voglia di trasgredire e quella altrettanto forte di fare una “confessione” indotta per quanto apocrifa: la rivolta insomma verso tutte le regole codificate di un cinema mainstream tipicamente hollywoodiano al quale anche lui è dovuto troppo spesso sottostare soprattutto nelle scelte più che nei risultati, e che sta lentamente sparendo o che forse addirittura non c’è più, fatta con lo sguardo di un ribelle di 70 anni che fa l’acrobata con le luci e le riprese come è stato giustamente chiosato ancora su “Duellanti”, che è poi quella di “un anziano signore”, di nuovo giovane arrabbiato, che la scarica elettrica di una saetta ha fatto fortunatamente regredire a una ritrovata giovinezza, e che come appunto un ragazzo, poiché ognuno di noi inevitabilmente fugge, ma contemporaneamente ricerca, ha bisogno di confrontarsi come quando era giovane, proprio con questo dualismo discordante che fa troppo spesso fibrillare l’anima e il cervello, che è poi il bisogno – la necessità - di ritrovare dentro se stessi per riappacificarsi, quella parte lontana che si ribellò al potere e al padre, e di rivivere la stessa esperienza con la saggezza della maturità, quando da “figlio” si è diventati “padre” e “nonno” per ritrovare poi una forma propulsiva diversa, ma analogamente intensa e produttiva e trasmigrare così nuovamente in una zona veramente franca, quella dove si parlano nuove lingue e si sperimentano ancor più innovative forme, con un’opera davvero “libera e selvaggia” che ridà a Coppola e a pieno titolo, lo statuto di cineasta indipendente, il più giovane in circolazione. (MariucciaCiotta su Film Tv).
A Buenos Aires, quasi in volontario esilio, vive Angelo, isolato in una vita da reduce, dopo una frattura profonda che lo ha portato sull’orlo di una definitiva alienazione mentale, in costante fuga dal passato e dal presente, senza contatti con il padre e la famiglia tutta, sorretto solo dall’affetto di Miranda che lo ama così tanto da non avere voglia né bisogno di porgli troppe domande. La visita improvvisa e sgradita del giovane fratello Bennie da il via a una spirale misteriosa di ricordi, e finirà così per riaprire antiche ferite e sopite incomprensioni mai dimenticate, rischiando di far precipitare il tutto verso una più definitiva e terribile tragedia sullo sfondo di paesaggi avvampanti di passioni e di nevose glaciazioni dell’anima.. Riemergeranno allora molti dei fantasmi sepolti di un passato lontano: un sinistro ed egocentrico padre, uno zio cortese e un po’ succube entrambi direttori d’orchestra di differente valore e persino di contrapposta notorietà inversamente proporzionale rispetto alla qualità espressa, una sorella compiacente che accetta troppi compromessi per salvaguardare l’onorabilità di un’apparenza, una tuttologa culturale di rara perfidia, il tradimento giovanile di un amore, una madre nota cantante lirica prematuramente morta in un violentissimo incidente automobilistico… l’amore e il delitto… e le passioni tutte, rivissute attraverso i sentimenti dell’insofferenza nelle tradizioni, di una “inamovibile” famiglia patriarcale. Una riflessione insomma complessa e ragionata sul tema del dolore, sull’impossibilità della rimozione, sulla fuga e la conseguente conquista della maturità, un viaggio che potremmo definire di purificazione dalle scorie della sofferenza e dei rancori, che è in fondo proprio l’affascinante ritratto di un’idea un po’ arcaica di una identità familiare, e allo stesso tempo un ripercorrere in modo evocativo e trasfigurato, la propria esistenza che diventa anche l’esperienza di un faticoso cammino di ricerca estetica.
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