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Antichrist

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Antichrist

di ed wood
8 stelle

E’ probabilmente il film più compatto e avvincente di Lars Von Trier. Il più lucido, il più lineare, il più bello visivamente. E’ semplicemente un gran bell’horror, “fatto bene”, calibrato al millesimo nella progressione drammaturgica e nella gestione della suspence. E’ dedicato a Tarkovskij, col quale ha certamente alcune cose da spartire; ma in verità, a mio parere, parrebbe la risposta a distanza allo “Shining” di Kubrick. Trenta anni prima, il grande genio newyorkese operava la sua unica e memorabile incursione in un genere stigmatizzato come “minore”, l’horror appunto, ossia quella branca del cinema fantastico specializzata nell’interrogazione del Male e delle sue svariate manifestazioni. La stessa cosa, con “Antichrist”, ha fatto il danese, per alcuni un genio, per altri un eccentrico discontinuo, per altri ancora un bluff nemmeno lontanamente paragonabile a Kubrick: in ogni caso, alla sua maniera spesso provocatoria e irrisolta, un “autore”. Questo film richiama “Shining” per una varietà di elementi, formali e contenutistici. C’è la sapiente e spettacolare alternanza di dialoghi ed accensioni visionarie (scandite da un sound-score effettistico ed onomatopeico, proprio come nel capolavoro kubrickiano); c’è la discesa dei personaggi verso la follia; c’è la progressiva rivelazione di un Male atavico, che si impossessa di anime e corpi, manifestandosi anche sotto forma di progressive visioni allegoriche (il cerbiatto, il lupo, la cornacchia); c’è un finale straniato in cui si materializzano i fantasmi del passato (non più il “predecessore” di Jack Torrance, ma le centinaia di “streghe” bruciate vive nel 500: quindi non più chi il Male lo fece, ma chi invece lo subì); persino alcuni zoom paiono venire dritti dalla mdp del buon Stanley…Poi certamente Trier ci mette del suo: c’è la tarkovskijana immersione in una Natura “chiesa di Satana” e “regno del caos” (il russo viene citato esplicitamente nell’improvviso acquazzone; mentre Eden può essere salomonicamente definito come metà Overlook Hotel e metà Zona), c’è la sapiente adozione di un’estetica “torture porn” (un paio di sequenze battono il 90% degli horror contemporanei in quanto a raccapriccio, fra primissimi piani di carogne di passero e genitali mutilati); c’è la consapevolezza di un meccanismo già svelato in partenza (il film è in forma di psicoterapia, e gli interventi verbali del marito/dottore illustrano il contenuto latente delle immagini partorite dalla mente della moglie). E’ un film dal fascino gotico, nordico, come certe lugubri leggende di quei posti: un film che si nutre di un immaginario consolidato da diversa letteratura horror e musica black metal. E’ l’horror satanico che tanti modesti registi vorrebbero fare, senza averne il talento necessario: doveva riuscirci proprio colui che aveva in parte fallito come autore intransigente camaleontico, ora eversivo (“Idioti”) ora bizzarro (“Dancer in  the dark”) ora teorico (“Dogville”, “Il grande capo”)! Paradossi della Settima Musa…Il suggestivo formalismo di un’opera che, fra i suoi tanti pregi, vanta anche una fotografia dalla tavolozza degna di certe pitture romantiche, è ribadito nel clamoroso incipit sorrentiniano, tutto al ralenti, in un pomposo bianco/nero da spot di gioielleria, con enfatico accompagnamento lirico: momento di premeditato anti-cinema, fra il kitsch e il sublime, che tornerà specularmente nell’excipit “selvatico” e, gratuitamente, nel sogno della pioggia di ghiande. Il discorso, fin troppo semplice e lampante, sulla presenza del Male nella Natura, del lutto privato assimilabile al dolore di tutto il Creato, della colpa come compagna inseparabile di qualsiasi esistenza, del binomio sesso/morte, dell’ambiguità vittima/carnefice si intreccia all’insanabile scontro Uomo/Donna, dove al primo spetta la razionalità (ma per questo anche l’ottusità, la cecità…del resto, anche Jack Torrance impazzì poiché non possedeva la “luccicanza” che gli avrebbe permesso di tenere gli “occhi spalancati” sul Male incombente) e alla seconda l’istinto, la perversa simbiosi col Tutto, la mimetizzazione nel verde della Natura, l’abbandono alle forze del Male. E quindi è giusto dire che, per Trier, vale l’equazione Donna=Male? Trier è dunque misogino? Può darsi, ma allora perché, alla fine, è ancora il marito (maschio) l’aguzzino? Perché una Storia che documenta di “caccia alla streghe”, di donne bruciate per il solo fatto di essere donne, di “femminicidi” ante-litteram, ripropone oggi, nel XXI secolo civilizzato di “Antichrist”, lo stesso copione, lo stesso rogo, la stessa “vittoria” del maschio? Quindi la Natura dice una cosa, ma la Storia evidentemente ha preso la direzione opposta. E il futuro cosa ci riserva? L’ultima sequenza è stupendamente ambigua in questo senso: i fantasmi delle “streghe” di ogni epoca circondano il marito assassino nella loro radura selvaggia, ma non ci è dato sapere se lo linceranno a loro volta o se saranno condannate ancora una volta a vagare faticosamente, a testa bassa, per gli impervi sentieri di un mondo che, contro-natura, le vuole perennemente vittime della “ragione” maschile. Filosofia spicciola, sublimata in uno spettacolo innegabile, ma non per questo accomodante: è un Trier limpido come in nessun’altra occasione, eppure ambiguo, aperto verso lo spettatore e la sua sensibilità interpretativa. Per il duo di interpreti, infine, non ci sono abbastanza superlativi.

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