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Antichrist

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Antichrist

di nickoftime
4 stelle

Un film rimasto in parte in testa al suo regista. Lars Von Trier riesce ancora a spiazzare adottando un titolo che rimanda ad un archetipo dell’immaginario cinematografico e poi, dopo un inizio che lascerebbe presagire un immersione negli incubi di una metafisica applicata al religioso, prosegue come un dramma strindbergiano, tanto allucinato quanto ordinario nel disporsi sui binari di un confronto in parte psicanalitico, per l’approccio teraupetico con cui Dafoe cerca di curare la depressione della moglie, traumatizzata dalla morte del figlio, avvenuta nel corso dell’amplesso che apre a mo di prologo la storia, e successivamente, verso la metà del film, quando lei afferma la propria guarigione e poi, con uno scarto che la sceneggiatura fa fatica a giustificare, si scaglia verso il marito colpevole a suo dire di volerla abbandonare, e diventa una sfida senza esclusione di colpi tra la vittima ed il suo carnefice. Abituato a provocare i suoi clienti con ben altre sfumature, questa volta il regista danese rende troppo esplicita la sua volontà, valga per tutti la penetrazione in primo piano che suggella l’antefatto amoroso, una sorta di melodramma raffreddato dall’invadenza dell’accompagnamento musicale e dal bianco e nero patinato delle immagini, oppurre la scena in cui lei inserisce una mola nella tibia di lui, eccesso di crudeltà che appartiene ai B movie amati da Tarantino ed ancora nella recitazione sovraccarica dei due attori, certamente voluta, ma che nel caso della Gainsbourg oltrepassa i limiti che permettono di distinguere tra un interpretazione attoriale ed una performance sportiva. Ed anche quando il clima si fa serio ed un angoscia sincera riesce a farsi largo in tanta confusione ed apprendiamo che la madre potrebbe essere stata consapevole della disgrazia imminente, rimane la sensazione di un cinema posticcio, che non inventa nulla di nuovo ma prende a piene mani iconografie (Lynch, Friedkin ma anche Kubrick) e situazioni (Haneke per quanto riguarda la mutilazione che lei si infligge nella parte finale della storia) già sfruttate. I rimandi alle vicende personali (la depressione che ha costretto il regista ad un lungo periodo di inattività) ed alla presunta misoginia di un uomo che sembra ossessionato dalla sofferenza femminile rimangono tali e fanno fatica ad assumere una valenza che l’apparato simbolico messo in campo ( la presenza di personaggi privi di nome, gli animali che danno vita alla costellazione immaginaria e che più volte incrociano la strada del protagonista, la natura come “Eden” abitato da novelli Adamo ed Eva) vorrebbe universali. Ad attenuare il rammarico di un attesa mal riposta c’è la conferma di un artista coraggioso che non arretra neanche di fronte all’autolesionismo e malgrado tutto riesce ancora una volta ad andare fino in fondo.

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