Regia di Nico Cirasola vedi scheda film
Il fatto che la McDonald’s sia un colosso mondiale arcinoto dai mastodontici fatturati non significa automaticamente che lì siano tutti dei geni. Anzi. Per aprire l’ennesimo fast food, scegliere come posto Altamura, ovverosia il luogo in cui la panificazione è un’Arte e un’istituzione, è veramente da masochisti. I prodotti dell’azienda americana saranno pure distribuiti capillarmente in tutto il globo, e riconoscibilissimi, ricercati, ma presentare quei loro “panini” di plastica col sesamo, insapori, innaturali, agli altamurani, è ridicolo e stupido. Per non parlare di cosa sono infarciti gli hamburger: carne, macinata, che può sostanzialmente avere qualsiasi composizione difficilmente rintracciabile (vedere per credere Fast Food Nation, in cui la specialità di una catena di fast food ha la carne che contiene una quantità oltre il limite consentito
[!!!] di merda [!!!], oppure il più conosciuto Super Size Me, per gli effetti devastanti sulla salute psico-fisica delle persone che si nutrono di “junkie food”).
La storia oggetto di questo curioso Focaccia Blues è vera, ed ebbe rilievo sui media, anche esteri. Di fianco all’abominevole McDonald’s apre un panificio in cui si vendono propri prodotti tipici del luogo, tra cui le divine focacce. La novità rappresentata dai famigerati hamburger, patatine fritte, intrugli dolci e bevande gasate, insomma tutto l’armamentario diabolico ben noto ed accettato, presto scema, e alla fine trionfa la bontà e la genuinità della focaccia. Non si è trattato di un ottuso e prepotente atto protezionistico, di cieca chiusura contro l‘”invasore straniero” (solitamente e “leghisitcamente” identificato con l’extracomunitario che vende kebab …); semplicemente, una volta tanto, ha vinto la qualità. Infatti la tanto vituperata globalizzazione (che costituisce una ricchezza ed offre più possibilità, sia di conoscenza sia di integrazione) non è il demonio, casomai lo è l’insieme, eterogeneo e capitalistico, di sordide multinazionali che la sfrutta per controllare e governare i territori, decidendo ed imponendo cosa guardare, cosa leggere, cosa mangiare, quali prodotti usare per curarsi, cosa (e chi) è buono e cosa (e chi) è cattivo.
La vicenda quindi si prestava “gustosa” e “succulenta” (come una vera focaccia!) per farne l’oggetto di un film. Il regista Nico Cirasola ha scelto l’ostica forma della docufiction per raccontarla. Mah, non è un genere che può raccogliere molti spettatori. Certo lo fa con leggerezza e spontaneità, e soprattutto con cognizione di causa, ma il risultato, da un punto di vista strettamente cinematografico, non è esaltante.
A parte la scena di apertura, affidata al "proiezionista" Michele Placido ("Noi abbiamo già tutto quello che ci serve per vivere meglio. Basta sceglierlo"), ci sono le classiche interviste sul fatto, perlopiù a persone che hanno mestieri dalle antiche e “nobili” origini (ed in corso di estinzione), degli sketch comici affidati alla coppia Lino Banfi-Renzo Arbore (sulla “guerra” Bari-Foggia ...), il viaggio in USA di un impavido (Onofrio Pepe) per far conoscere ai suoi abitanti la focaccia e, nel mentre, la storiella di tre personaggi principali: il ruspante fruttivendolo Dante, apecar-munito, la mediterranea casalinga Rosa e il giovane forestiero muto Manuel, che va in giro con un‘auto di lusso. Naturalmente è una metafora della vicenda in questione, in cui i tre rappresentano, nell’ordine: la genuinità, semplicità e bontà delle ricchezze (gastronomiche ma anche sociali) del luogo, il primo; la gente comune, che ha la facoltà (e diritto) di scelta (cioè dove acquistare il cibo), la seconda; l’esotismo, il fascino e l’attrazione (nonché l’arroganza) della ricchezza, l’ultimo. Ognuno di tali sviluppi presenta sì qualche simpatico e convincente risvolto (il totem M, marchio della McDonald’s, che fa ombra al posto in cui Dante ha messo i pomodori a seccare al sole; il siparietto tra il gestore di un cinema - interpretato da un divertito Nichi Vendola - e Dante, sullo stato del Cinema; il “rumore” delle cicale e la scelta dei luoghi; delle gags azzeccate), ma la messa in scena è troppo semplicistica e stereotipata, altresì priva di idee registiche degne di nota; ci sono troppi momenti stucchevoli e/o poco efficaci (anche nei duetti tra Banfi e l’antipatico Arbore) e scene che danno la sensazione di essere solo riempitive, e musiche non memorabili (quando non irritanti). Il paesaggio, tipico delle Murge, è raffigurato con brio e affetto, questo è indubitabile, ma poteva essere sfruttato meglio, come il resto. Un peccato. La soddisfazione per il fatto in sé rimane, ovviamente, ed è piacevole ed appagante pensare che qualche dirigente della McDonald’s abbia avuto nell‘occasione, per usare una riuscitissima battuta di Banfi, un doloroso effetto “POST-LAMPASCIONEM”!!
Chi non sa o non comprende cosa sia e da cosa derivi, ovvero da quei deliziosi e prelibati frutti della terra, chiamati lampascioni, s’informi.
Ultima considerazione personale: debbo confessare che, così come fa a un certo punto il personaggio di Manuel quando assaggia la focaccia, anch’io da bambino ne toglievo, con meticolosa abilità chirurgica, i pomodorini. Fortunatamente, è solo un ricordo.
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