Regia di Vittorio Rifranti vedi scheda film
Davanti il microfono, Vittorio Rifranti (milanese, classe '66, laurea in Lettere, diploma di regia alla Civica di Milano) è timido, impacciato. Il breve incontro col pubblico per la presentazione della sua opera prima “ufficiale” (ancora inedito “Lo sguardo nascosto” del 2004) ne mostra l'immagine simpaticamente più goffa, opposta al rigoroso stile professionale. Miglior esordio a Locarno, nel 2007, questo lungometraggio, girato in digitale con basso budget, ha una storia distributiva particolarmente tormentata. Vari problemi burocratici, legati all'imposizione (discutibile) del divieto ai minori, ne hanno bloccato l'uscita per ben due anni, nonostante il prestigioso riconoscimento ottenuto. Solo ora, trova finalmente il respiro delle sale italiane. Un film sofisticato, cerebrale. Imperfetto nei dialoghi (la lacuna più evidente), ma incredibilmente efficace nell' astratta messa in scena: la luce trasmette una sofferenza straziante, la superficie degli oggetti - ora opaca ora lucida (persino le pagine patinate di un innocuo catalogo riflettono un barlume sinistro) - amplifica la desolazione dei rapporti umani, l'angoscia delle parole scava un vuoto agghiacciante, le nude pareti diffondono un gelo insostenibile. La fondamentale fotografia di Andrea Serafino gioca soprattutto con la sovraesposizione creando suggestivi quadri sospesi, congelati in una dimensione surreale: corpi immersi in un bagliore ora accecante ora soffocante, perimetri indefiniti, ambiguità, crudeltà. Nadia (una magnetica, spigolosa Micol Martinez), Paola (Isabella Tabarini) e Massimo (Fabrizio Rizzolo) si incrociano nel corridoio di un ospedale durante la comune riabilitazione successiva a un grave incidente stradale. Miracolosamente riconsegnati alla vita, nonostante le profonde cicatrici che li solcano, i tre giovani rimbalzano dalla tormentata esperienza, dopo aver attraversato il tunnel del coma. Di quel misterioso viaggio, però, nulla ricordano se non un vago, inquietante spettro. Trascinati in uno spazio alieno, lontano dalla realtà, allacciano un legame via via sempre più stretto, esclusivo e morboso. Una volta a casa, cominciano a frequentarsi di nascosto dai loro affetti provando, letteralmente sulla propria carne, prima il dolore fisico (lame, vetri ecc.) poi il sesso come strumenti di conoscenza del confine della morte, del piacere e della vita. Trovano nella body-art estrema il casuale, perfetto punto d'incontro iniziando, così, un lungo percorso empirico, un nuovo drammatico itinerario che cambierà per sempre la loro vita. Rifranti osserva questa lugubre discesa nell'inferno psicologico con una lucidità impressionante. Sfiorando a tratti il gotico (da brividi la lenta discesa dalle scale, nell'intro della performance teatrale) a tratti il lirismo più stralunato (la danza dei corpi appesi, un frammento di grande cinema), il regista milanese firma un'opera aspra, opprimente, ispirata alle atmosfere malate di Cronenberg e di Garrone. Imprecisa per alcuni aspetti (il tema della guerra balcanica, che coinvolge Massimo, rimane sfilacciato), ma assai preziosa per il tentativo di elaborare un personale, coraggioso, sperimentale linguaggio cinematografico.
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