Regia di Niels Arden Oplev vedi scheda film
A volte può capitare che il destino, o fattori contingenti, affianchino film profondamente diversi fra loro ma che, in virtù di ragioni particolari, si trovino al centro di discorsi in cui vengono associati. E' accaduto di recente con "Vincere" ed "Antichrist", due pellicole agli antipodi ma di cui si è parlato spesso collocandole l'una accanto all'altra per via della loro proiezione quasi contemporanea a Cannes e poi per il loro tempestivo arrivo nelle nostre sale praticamente nelle stesse ore. E sta capitando di nuovo in questi giorni, seppure per motivi assai diversi, con il supercampione d'incassi "Angeli e demoni" e questo "Uomini che odiano le donne", bizzarramente accomunati dall'essere entrambi trasposizioni cinematografiche di celebri best sellers. Premesso che non ho letto nessuno dei due romanzi in questione, devo confessare la mia avversione nei confronti dell'operazione miliardaria condotta da Dan Brown (e del relativo film); pur non avendo letto il libro, nutro una mia pregiudiziale diffidenza verso i "romanzoni da spiaggia", quelli che vengono divorati da un popolo, se mi si passa l'espressione, "da telegatti", quegli italiani che (per dire) pensano che per sentirsi acculturati basti avere letto un libro di Francesco Alberoni (!). Quanto al film che ne è stato tratto (parlo del secondo, che sta bruciando ogni record) l'ho visto e mi ha talmente infastidito da decidere che non valesse neppure la pena di recensirlo. Discorso molto diverso, invece, per questo primo capitolo della trilogia "Millennium", firmata dallo svedese Stieg Larsson, giornalista-scrittore sul quale sarebbe necessario aprire una sezione a parte. Proprio nel momento in cui scrivo queste righe vengo a conoscenza della sua biografia che mi riprometto di approfondire e da cui risulta una personalità davvero interessante; Larsson, morto per infarto nel 2004, diresse una rivista antirazzista, studiò profondamente le caratteristiche del neonazismo, fu consulente di Scotland Yard, e ancora tante altre cose: insomma la sua fu una carriera piena di interessi che sarebbe opportuno conoscere più da vicino. Peraltro è curioso segnalare che la casa di produzione del film, la "Yellow bird", non è un colosso ma ebbe l'accortezza di acquisire i diritti della trilogia quando questa non era ancora quel formidabile caso letterario che poi divenne solo pochi anni dopo. E poi soprattutto (scusate la vena polemica) qui nessuna "fuffa esoterica", ma un misterioso, intricato ed inquietante "giallo". Vale a dire: romanzone di massa, sì, ma più che dignitoso e molto interessante. E raccontato secondo i criteri classici del giallo, attraverso un lungo ed articolato percorso investigativo, dove si aggiungono continuamente (anzi, forse con frequenza eccessiva) nuovi tasselli e nuovi elementi che però non sempre rappresentano un passo in più verso la soluzione: o meglio, vengono in aiuto a chi sta indagando sullo schermo, ma non sempre lo stesso si può dire per lo spettatore, il quale -è chiaro che sto parlando per me- spesso è un pò frastornato dai colpi di scena e da certi "2 + 2 = 4" che appaiono francamente fantasiosi e un pò troppo arditi, se non addirittura incomprensibili. Ma su questo punto non vorrei essere frainteso: il romanzo, nel suo aspetto investigativo -che è centrale- è scritto molto bene e il film ne è all'altezza, tanto da conquistare tutta l'attenzione dello spettatore il quale però deve stare al gioco, cioè prendere per buoni certi "collegamenti" non sempre facili da afferrare. Ma questo è un male da poco, di fronte ad un film che ha il pregio, pur raccontando una storia tutto sommato tipica che presenta elementi altrettanto tipici, di riuscire ad apparire per molti versi originale e inconsueto. E i motivi di questa riuscita vanno individuati in una regìa asciutta e a tratti nervosa, in un commento sonoro suggestivo, ma soprattutto in una forma -una volta tanto- non riconducibile allo standard dei thriller americani cui siamo rassegnati. L'ambientazione e i volti degli attori, questo intendo dire, imprimono alla visione uno spirito per noi italiani del tutto inconsueto. Di thriller inquietanti ed enigmatici, magari attraversati da risvolti morbosi, quanti ne avremo visti? Decine, forse centinaia. Ma ambientati nella bellissima terra di Svezia (certi panorami dall'alto di strade che si aprono tra i boschi sono stupendi!!), e poi con queste facce (come dire?) da "crucchi" (sia chiaro che il termine è affettuoso e per nulla offensivo!), beh, con questi elementi, almeno a mia memoria, credo sia la prima volta nelle sale italiane. E' un mondo, quello del "giallo svedese" per noi inedito, e in ogni caso, poco ma sicuro, siamo del tutto fuori dagli stereotipi hollywoodiani. I due personaggi principali rivelano ciascuno i due piani narrativi proposti. Abbiamo (e questo è il piano prevalente) un giornalista investigativo famoso per la sua determinazione professionale che cade in disgrazia: ha condotto una coraggiosa inchiesta ma molto rischiosa sui retroscena sporchi di un ricco uomo d'affari svedese, ma quest'ultimo essendo potentissimo riesce a ribaltare "il caso", uscendone trionfatore ed ottenendo la condanna (pecuniaria e detentiva) del giornalista, che si chiama Mikael Blomkvist ed è palesemente l'alter-ego dell'autore Stieg Larsson. L'altro personaggio protagonista è una giovane hacker informatica (Lisbeth), ombrosa e taciturna, che ha alle spalle (e questo è il secondo "filone" narrativo del film) un passato doloroso e tormentato col quale non ha mai smesso di fare i conti. Ecco. Diciamo pure che quest'ultimo personaggio è forse l'immagine stessa del film, e non solo perchè campeggia sui manifesti. Il fatto è che Lisbeth è un personaggio -cinematograficamente parlando- di quelli nati per vincere. Non equivochiamo: nel film lei è una magnifica perdente alla ricerca di una resa dei conti coi fantasmi del proprio passato, ma - al botteghino- è una sicura vincente. Gran personaggio, scritto assai bene, che conquista il cuore del pubblico appena entra in scena dopo i titoli di testa. Acida, nervosa, incupita, una specie di cavaliere dark al femminile, attraversata da qualche venatura di mascolinità, con questo look assolutamente efficace, acconciatura punk, trucco e aspetto "gothic", tatuaggi e piercing, giubbotto nero di pelle e -ovviamente!!- anfibi ai piedi. E il piccolo miracolo è -pur con un tale aspetto fortemente caratterizzante- che Lisbeth ne esce fuori come personaggio credibile, doloroso, affascinante: perchè è chiaro che il pericolo numero uno era quello di farne una macchietta-punk, o una punkettina patinata e modaiola, e sarebbe stato ridicolo. Ma il merito, evidentemente, non è solo di chi "l'ha scritta così", bensì ovviamente anche della bravissima Noomi Rapace la quale, in un colpo solo, mette a segno un punto non da poco: dare vita a un personaggio che -nell'immaginario di noi cinefili- occupa già un suo spazio, magari non fondamentale ma comunque rilevante. Anche se viene spontaneo porsi una domanda. Cioè, dato il forte processo di identificazione con un personaggio così incisivo, è lecito chiedersi se la brava Noomi riuscirà ad interpretare con altrettanta intensità ruoli diversi da questo nel suo proseguimento di carriera: ma la stoffa c'è, Noomi è appena all'inizio del suo percorso e sono sicuro che non avrà problemi a confrontarsi con nuove proposte. Acennavo prima ad una trama non sempre logica e ricca di personaggi, ma soprattutto intricata nel suo complesso accavallarsi di aspetti inconsueti, quali: necromanzia, divinazione, simbologie ebraiche, testi sacri, riti con animali, rigurgiti nazisti...Tutti elementi che da una parte arricchiscono di interesse e di fascino inquieto la vicenda, ma che possono forse generare qualche perplessità per una certa vaga faciloneria con cui vengono mixati fra loro. Tuttavia, questo non è un fattore che possa inficiare più di tanto l'interesse dell'opera e dopotutto, se ci pensiamo, i "romanzi popolari" (leggi: best sellers) per funzionare devono ormai "per contratto" contenere qualche elemento "disturbante", se non altro per procurare qualche brivido rinfrescante a chi li consuma avidamente sotto l'ombrellone. E poi (e ridaje con la polemica!) ci consoliamo subito se pensiamo a quella montagna di cazzate inventate e spacciate per "misteri esoterici" di cui Dan Brown ama farcire i suoi tremendi "romanzoni-fuffa". In sintesi: non un GRANDE film, ma senza ombra di dubbio un BUON film.
PS: mi rendo conto che l'accostamento è arbitrario e del tutto personale, ma quella bellissima foto della giovane scomparsa (Harriet), incantevole in quel bianco e nero senza tempo, mi ha ricordato tantissimo l'immagine ricorrente di Laura Palmer in "Twin Peaks".
Voto: 8/9
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