Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film
Robotico, programmato e fin troppo pensato, questo nuovo lavoro del regista che con Volver aveva emozionato sin dalla prima inquadratura: il lunghissimo piano sequenza con le donne che lavano le tombe rimarrà il rimando naturale alla poesia foscoliana. Diversamente accade in Gli abbracci spezzati, brutto sin dal titolo, nonostante il grande tentativo di porre insieme i toni melò, il noir e il drammatico. Sembra che qualcosa, che non siano solo gli abbracci, si sia interrotto nel caso di Pedro Almodovar. Dalla storia sembrerebbe che si tratti proprio di ispirazione: dove sono finiti quei dialoghi taglienti e dissacranti, la sprezzante ironia e le emozioni da carne tremula? Nonostante le tematiche siano le stesse di sempre, dall’omosessualità, al rapporto genitori-figli, dal meta-cinema all’equazione donna uguale sentimento, sembra che ne Gli abbracci spezzati manchi Almodovar, prima di tutto.
Protagonista de Gli abbracci è Mateo Blanco, un ex regista, divenuto cieco e convertitosi al mestiere di sceneggiatore con lo pseudonimo di Harry Caine, la cui vita scorre tranquilla grazie alle cure dell’ex segretaria di produzione, Judith e del figlio di quest'ultima, Diego. Come sempre nei film del regista di Parla con lei, la normalità non può avere vita lunga, perché è piuttosto il surreale a dettare legge nelle storie quotidiane. Infatti, l’armonia del placido terzetto si rompe presto, quando Diego é ricoverato a causa di un malore, mentre è in discoteca e, quasi contemporaneamente, un misterioso personaggio minaccia Harry di rievocare alcuni terribili fantasmi del suo passato. È allora che quest'ultimo decide di raccontare a Diego la sua storia e soprattutto quella della sua relazione clandestina con Lena, ex segretaria dal passato torbido e sposata con un ricchissimo industriale. La donna era stata scelta da Harry come protagonista del suo film, Chicas y maletas, iniziato a quindici anni e mai terminato, a causa dell'incidente in cui ella morì ed egli divenne cieco. È quindi attraverso un flashback che il film ricostruisce le storie di gelosia, amore e ossessione, che uniscono il presente e il passato dei personaggi.
Molte le citazioni, anche eccessive: Hitchcock, Douglas Sirk, ma soprattutto Rossellini (lo stesso brutto titolo del film prende ispirazione da Viaggio in Italia), citazioni di se stesso, ma soprattutto di molte storie retoriche. A cosa servono le inutili immagini iniziali del film, con gli standing di Penelope Cruz e Lluis Homar ripresi con la telecamerina di controllo? Quanti sono i romanzi e i film che hanno raccontato del cinema che si contrappone alla cecità di un protagonista; dell’handicap, che non è mai solo fisico, ma anche scelta volontaria di dimenticare il passato? Anche lo spettatore televisivo e piatto è consapevole dell’ormai vecchia convinzione che il cinema non si fa con gli occhi ma con il cuore. Solo che prima a convincerci c’era anche Pedro Almodovar.
Invece, come sempre accade, lo stato di grazia di un’attrice come Penelope Cruz non fa rimpiangere allo spettatore il costo del biglietto. E se in Volver era più Magnani, in questi abbracci, la straordinaria attrice ha la stessa eleganza del pianto, del sorriso e del ghigno di Audrey Hepburn e della Marilyn, non sottacendo quel tocco di classe che l’è molto personale e congeniale. Quando Almodóvar si diverte a far ripetere alla Cruz la celebre scena di Donne sull’orlo di una crisi di nervi, in cui Carmen Maura tagliava pomodori per preparare un gaspacho avvelenato, donandoci una delle scene più erotiche, quando l’eros è il connubio di eros-thanatos, non c’è solo rimpianto, ma ancora una volta l’emozione per un’attrice capace di recitare con il solo sospiro.
Quel che non funziona, quindi, è il tormentato e lungo racconto de Gli abbracci. Questi, nonostante si spezzino, non provocano mai emozione. Semmai l’unica sensazione è quella di inchiodamento alla sedia, data l’eccessiva lunghezza del film, da cui, volentieri, il pubblico vorrebbe ‘spezzarsi’. Ma Almodovar non lo si lascia solo per affetto e per onore alla sua ‘mala education’, che tanto ci manca.
Giancarlo Visitilli
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