Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film
Il film si conferma un’opera di forte impatto, come dimostrano le accese discussioni fra i pro e i contro, che riguardano sempre e solo le opere che in qualche modo lasciano il segno e intendono marcare “le distanze”. E' un'evidente evoluzione verso una maturità stilistica che inizia a mostrare i segni di un viaggio verso l'autobiografia.
Non avrei potuto fare Gli abbracci spezzati senza l’omaggio al film Viaggio in Italia di Rossellini. E’ stato ripetuto spesso da Almodovar nel corso delle interviste, e non sono soltanto le sue parole, né semplicemente l’innamorato, struggente inserimento visivo che ne fa a farci intuire un ipotetico parallelismo dell’anima, che trae ispirazione da questa straziante “ricognizione” sui corpi abbracciati degli amanti di Pompei, fissati per sempre nell’atto e nel momento supremo della morte, perché questa volta il regista è davvero di fronte non solo al cinema “tout court”, con il quale si è divertito spesso a giocare, ma anche a se stesso, e si avvertono di conseguenza persino nel suo “sguardo” che si identifica ancora e sempre con quello della macchina da presa, necessità “indaganti” diverse, più intime, personali e private rispetto al passato, implicazioni sensoriali più profonde, che traggono linfa e spunto proprio da ciò che definiscono sulla pellicola quelle immagini di riferimento, compresi i sentimenti angoscianti che riescono a stimolare in chi osserva e interpreta, che vanno ben oltre le apparenze di un inanimato reperto archeologico che è poco più di una semplice “raffigurazione” quasi surreale di ciò che è stato.
Questa volta però il pubblico (ma anche una parte della critica) non si è lasciato sedurre come al solito davanti alle “risapute” ma mai scontate provocazioni almodovariane, che pure sono ugualmente disseminate nel percorso: è rimasto in genere più “distratto” e inanimato, poco coinvolto cioè da ciò che forse immaginava di conoscere già meglio e in forma più smagliante e che gli è apparso in questo caso un più spento e manierato epigono, non so se meno ispirato, ma certamente meno “intrigante” del solito (confesso che anche io ho trovato qualche fastidioso disagio disorientante, non sono riuscito cioè a trovare lo stesso trasporto emozionale di Parla con lei o Volver, tanto per fare degli esempi concreti, che mi ha portato, al primo contatto, a prendere le distanze dal risultato che sembrava essere più fiacco e meno “meditato”).
Eppure anche qui Almodovar è inventivamente “fiammeggiante” fra paradossi e rivelazioni che non si discostano di molto nelle lessicali apparenze estetiche dalla sua tipicizzata procedura di “raccontatore”, anche se espressa in questo caso con una modalità più “trattenuta” e meno espansivamente empatica rispetto agli altri suoi spudorati melodrammi ai quali ci aveva da tempo abituati creando quasi una inamovibile - pur se in costante e progressivo movimento - “consuetudine” codificata. La differente “presa di distanza” dalla materia narrata, una certa freddezza di approccio che rende meno caratterizzati gli spunti grotteschi e persino più “annacquati” i frequenti colpi di scena, è la divergenza prioritaria che ci ha portato forse a immaginare un inaridimento che inceppa un poco il meccanismo, nonostante lo stile impeccabile della forma, che in questa costante iterazione frammentata di crudeli passioni non completamente soddisfatte, si appoggia su “movimenti” insoliti, che non tradiscono né ripetono il passato, ma si evolvono in una variazione dei toni impattanti della provocazione, che ci inducono a immaginare uno spostamento (più che un impoverimento) della sua strabordante creatività d’autore che non eravamo preparati a prendere in considerazione, e si ha per questo difficoltà ad avvertire e riconoscere una “maturità” più riflessivamente senile che – una volta presa coscienza e soprattutto “confidenza”– può risultare persino produttivamente positiva.
Credo allora che sarà solo il tempo, come spesso accade, a ristabilire (e lo farà certamente) i necessari rapporti e una più equilibrata e incontestabile scala di valori capace di restituire a Cesare quello che è di Cesare (perché il film rimane un’opera di forte impatto e presa, come dimostrano le accese discussioni fra i pro e i contro, che riguardano sempre e solo le opere che in qualche modo lasciano il segno e intendono marcare “le distanze”) e di collocare quindi nella giusta posizione anche “evolutiva” questa diciassettesima fatica del regista che è sicuramente tutt’altro che una “battuta d’arresto”.
Raccontare il cinema facendo cinema, è sempre un’impresa molto complicata, rimanda a molti – troppi – illustri precedenti che diventano sempre “riferimenti” obbligati e referenziali, con i quali è pericolosissimo mettersi a confronto e in competizione, ma quando è “indispensabile” per il proprio equilibrio (come in questo caso, a quanto ci è dato di sapere), si fa “ciò che deve essere fatto”, mettendo da parte ogni reticenza anche “devozionale”, perché prima di tutto si deve rendere conto al nostro cuore e non si temono, di conseguenza, né zavorre né, paragoni impopolari. Stupisce infatti la sofferenza nascosta che traspare e che a mio avviso indica chiaramente proprio che questa volta forse c’era prima di tutto un bisogno più intimo (quasi fisiologico) da soddisfare che non era poi quello di essere il solito “piacione”, ma piuttosto quello di confrontarsi prioritariamente con le ossessioni un po’ voyeristiche che il succedaneo occhio della macchina da presa offre rispetto alla vista, a volte troppo fallace per percepire davvero l’essenza delle immagini che osserva (e in questo percorso fra “specchi e rifrazioni”, Almodovar ci riversa dentro molta della sua vita e del suo “momentaneo dramma”, perché in qualche modo l’opera gli è servita anche per esorcizzare una paura profonda e persistente, che si avverte come lampante priorità).
Almodovar era infatti reduce da una lunga, dolorosa emicrania che lo aveva costretto a vivere inattivo e al buio per molti mesi, ed è certamente da qui che è nato il progetto, l’ispirazione, cresciuta di pari passo col bisogno di metaforizzare l’ossessione di un’esperienza così traumaticamente disturbante. L’immaginazione, quando sei al buio, può rivelarsi salvifica o dannata: se pensi che non migliorerai, puoi arrivare al suicidio (è proprio il regista che ci parla di questo). Io l’ho messa al servizio di una storia. Non è stata vera salvezza, ancora soffro di questi attacchi, ma almeno è diventata cinema e questa mia passione mi ha dato la forza di rimettermi al lavoro.
E’ azzardato allora dire che è proprio dal buio che nasce - quasi come un “ricostruttivo” intervento terapeutico - questo Gli abbracci spezzati che si estrinseca puntando sulla stilizzazione più che sull’effetto e su una narrazione insolitamente antinaturalistica? Non credo proprio che lo sia, perché ci fornisce al contrario una eccezionale lezione di coerenza e di tenuta, con una serie ampissima di variazioni sul tema, o meglio ancora, sui temi che si sono intrecciati in tutto il precedente percorso del regista, non solo “privato”, ma anche relativo al cinema dal quale trae origine la sua speciale, particolarissima, “arte della visione”, e lo fa parlando di un regista diventato cieco che è il riflesso immaginario di se stesso, e che per dimenticare la morte dell’amata, si regala una nuova identità e si spinge in una dimostrazione “pratica” di come si può sublimare quella mancanza “disperante” che è l’assenza della visione della quale sembrerebbe di non poterne fare a meno, oggi come ieri, ma ancor di più nei tempi bui della nostra contemporaneità, che hanno fatto diventare proprio “l’immagine” l’elemento cardine e prioritario dell’esistenza.
Non è un melodramma, piuttosto un dramma molto duro (ed è ancora Almodovar che parla e “chiarisce”). L’ho partorito in un momento di grande sofferenza e la tristezza traspare dalla storia, pervade i personaggi. Specie quello di Penelope Cruz, disegnata come la femmina fatale tipica dei noir, ma che invece si rivela vittima predestinata. Da subito. Avrei voluto salvarla, ma non potevo tradire quel che mi chiedeva la storia. Suona paranormale, lo capisco, ma è così.
Di fronte a una materia ancora una volta incandescente, il regista non può rimanere dunque neutrale, è costretto a confrontarsi e fare i conti anche con ciò che in lui non è mai linearmente univoco, ed ecco allora “giustificati” i frequenti cambi di registro che fondono però insieme con una forma smagliante, “quel” dramma che aleggia sempre sui ricordi, con la “consueta” commedia apparente della vita, fra rapporti sentimentali e identità cangianti, via via che si ricostruiscono i puzzle dispersi dell’esistenza, che si rimettono insieme i pezzi disseminati e sparsi di quella moltitudine di foto strappate, intenzionalmente “sbriciolate” in microscopici tasselli da riassemblare con pazienza certosina per ricomporre insieme a loro, anche i mille abbracci spezzati – tutta l’incompiutezza disperante di ciò che è stato e non può ritornare – riprendendo con coraggio in mano quei dolorosi brandelli lacerati che emergono dalle macerie che ci siamo lasciati dietro (e il cinema di Almodovar è davvero pieno di fotografie “sbrindellate”, e l’opera sulla quale ci stiamo soffermando adesso, in modo particolare).
I riferimenti alla professione di “cineasta” sono “esplicitamente” molteplici, dunque in una specie di autocitazionismo celebrativo, più prosciugato ed essenziale del solito (Rossellini, come abbiamo visto – ma non solo Viaggio in Italia, ovviamente. Ci sono poi anche le “fissazioni” ricorrenti, un po’ alla maniera del Fellini di 8 ½, il Bergman di Persona leggermente mischiato però, quasi scecherato, con le empatie avvolgenti di Douglas Sirk, in particolare per quanto riguarda l’intensità emotiva “seminata” in molti frammenti, e soprattutto il Peeping Tom di Powell – un nome straordinario che ritorna con una certa insistenza nell’anno cinematografico appena terminato, e non credo che sia una semplice casualità – citato ed “omaggiato” con reverenziale dovizia particolareggiata di elementi figurativi, come l’ossessiva presenza dell’obbiettivo – sia esso macchina fotografica, videocamera o cinepresa - che osserva) in questo coinvolgente gioco a incastri fra occhi che non vedono più ed hanno bisogno di “mediazioni” di lettura labiale - una delle tante felici intuizioni dell’opera che conferma le provocazioni perfidamente ironiche che non possono mai mancare nel suo cinema – e macchine da presa che osservano e “fissano” anche ciò che non dovrebbero vedere, compreso persino, come in Powell appunto, l’attimo supremo della dipartita, in questo meta-cinema espresso all’ennesima potenza che, come abbiamo già detto, è soprattutto concentrato sugli “strumenti della visione” e sul loro utilizzo, un lavoro portato avanti con la consueta raffinatezza di sempre (il sicuro marchio di fabbrica dell’autore), utilizzando una pastosità di colori e di “rapporti” fra personaggi, oggetti e l’opulenza di un lussureggiante paesaggio vivificato dalla forza di una eccezionale fotografia capace di trasformare - come già in Parla con lei - semplici panorami “naturali” fotografati dall’alto, in arabescati arazzi un po’ fatati che lentamente riprendono il loro senso e la loro dimensione più realistica in quel discendere progressivo “verso terra”.
L’impareggiabile fluidità narrativa consente ancora una volta ad Almodovar di spaziare con disinvoltura persino fra i generi (e di dominarli piegandoli alle sue esigenze come solo lui sa fare), una ennesima dimostrazione di bravura che passa anche attraverso la direzione degli attori (questa volta utilizzati con una sobrietà e una misura insolita, e che forse rappresentano per questo, uno degli elementi di minore “riconoscibilità” rispetto al passato, oltre che di disagio – per non dire delusione - per i fans più sfegatati della “maniera”, che solo nel breve divertentissimo inserto a cui ricorre non solo per le esigenze della storia, del film nel film, sembra voler rispolverare “ciò che è stato” per “ricordarci” che c’è anche un altro modo di raccontare e di raccontarsi (e di prendersi persino “bonariamente” in giro) che non ha né dimenticato, né tantomeno archiviato. Perché con quel film nel film ritorna proprio con perfido sarcasmo sui propri passi: Il regista di Gli abbracci spezzati è infelice, ma il film che ha girato è pieno di allegria, dice ancora languido Almodovar. Ed ecco allora che nella “riconciliazione” finale che passa proprio dal recupero di ciò che si immaginava essere andato perduto per sempre, la pellicola “miracolosamente” ritrovata di Cicas y maletas, diventa non solo la citazione esplicita di Donne sull’orlo di una crisi di nervi, che è poi una delle opere cardine del suo percorso e uno dei titoli che maggiormente ha contribuito a dargli fama e successo, ma anche il terreno fertile sul quale può fare di nuovo integralmente sfoggio della sua “pungente creatività” festosamente distruttiva. E il personaggio della donna assessore che spaccia coca tra i politici, che Almodovar ha scritto per l’attrice Carmen Machi, è davvero strabiliante, traspare pienamente nel breve monologo col quale spiega perché il sesso è un bene sociale di cui tutti dovrebbero disporre: “L’ho trasformato in un corto molto porco” quel racconto, ci rassicura ancora il regista (ma per vederlo per averne conoscenza integrale, dovremo aspettare il dvd, poiché sarà un frammento importate degli extra che verranno proposti in tale circostanza).
E’ proprio dunque confrontandosi con questa parodistica citazione di un film che già di per sé era volutamente “eccessivo” e sopra le righe fin dalle origini, che diventa ancor più significativa (e interessante) l’analisi riguardante il cambio di posizione e di prospettiva rispetto al cinema degli esordi, che raccontava una Spagna vitale e viva proprio perché “depurata” dai segni mefitici della dittatura Franchista che l’aveva troppo a lungo mortificata: Allora, (dice ancora il regista, e la fonte è l’articolo-intervista pubblicato su La Repubblica di qualche domenica fa) in quel momento particolare, cancellare il franchismo era una scelta politica deliberata e necessaria. Il Paese assaporava le prime libertà dopo il regime, ed esorcizzavo così quasi negandola, l’esistenza di Franco e della sua dittatura. Ero un giovane cineasta interessato alla verità della strada, inseguivo la mia libertà individuale dentro una ritrovata libertà collettiva. (…) Adesso invece la memoria, riconciliata, è un patrimonio del mio Paese. Già in Carne Tremila avevo scelto di aprire il film con Penelope che partoriva su un autobus la notte in cui il regime dichiara la legge marziale. Ho scelto allora di far sentire la voce di “quel ministro” che è, incredibilmente, un politico attivo ancora oggi (tutto il mondo è davvero lo stesso paese a quanto sembra) per rendere chiaramente ostile la mia posizione e critico il mio dissenso. Adesso che il ricordo è lontano, si può dunque parlare di altro e in differente maniera, sembra voler “confessare” fra le righe, finalmente liberati dai fantasmi ingombranti di quei “dimenticabili” trascorsi.
E nella nuova prospettiva più futuribile, è ancora Penelope, la “sua” Penelope, ad essere il cardine di questa vicenda in un certo senso “di rinnovamento” che ondeggia fra il ’92, il ’94 e il 2008, dove soprattutto ad incantare, più che i fatti, è proprio l’atmosfera, quel particolare climax che il regista magistralmente crea e che si definisce fin dall’inizio (dopo una partenza con deboli reminiscenze del noir classico, dovute a quella voce fuori campo che fa tanto Hollywood degli anni d’oro) che passa indenne e si amplifica “resistendo” magnificamente, nel passare senza “scarto” dal comico al drammatico per approdare appunto persino alla caricatura, senza logorarsi o disperdersi in inutili orpelli.
La storia è, come al solito, molto complessa e piena di “segreti” e di scoperte: possiamo limitarci a dire che passioni travolgenti, rancori, misteri e riconciliazioni, si ammassano e si aggrovigliano attorno alla realizzazione di un film, si estrinsecano nelle storie di più amori incrociati, e da lì si riversano prismaticamente sullo schermo, quello del cinema dove proprio noi stiamo assistendo alla proiezione, fino a diventare l’elemento catalizzatore dei sentimenti e dei personaggi con i quali ci viene richiesto di confrontarci. Un impianto drammaturgico dunque che concentra tutti gli innamoramenti (e le influenze) da sempre dichiarati ed ammessi dall’autore, davvero di rara potenza espressiva destinato a far discutere, a creare “dissensi” o accalorati furori, con le sue lentezze e le ricorrenti iterazioni che si intersecano (gli eterni ritorni, potremmo definirli…) quel procedere compassato e insolitamente controllato che però ogni tanto si ricorda di “sbracare un poco”, ma sempre evitando picchi di forte emotività ritenuti questa volta poco opportuni e ancor meno essenziali (basti osservare la “freddezza” quasi da esercitazione in vitro della rappresentazione “straziata” dell’abbraccio spezzato dall’incidente e raffrontarlo con le palpitazioni di altri momenti analoghi, come per esempio quello speciale e magnifico di Tutto su mia madre, per comprendere come a volte ci si può davvero sentire un tantino “fuori fase” quando non si ritrova la dirompente forza di un autore, anche se lentamente poi le forme di adattamento “alla ragione degli altri”, al rispetto delle scelte, aiutano a capire e comprendere).
Bellissima e intensa con quegli eccessi di “rosso” che anticipano la tragedia, la sensuale, disponibile, fremente e cangiante Magdalena di Penelope Cruz (sappiano in cosa può trasformarsi l’attrice nelle mani sapienti del regista) ma la menzione davvero speciale questa volta spetta a una immensa Bianca Portillo – solo all’apparenza più “dimessa” e remissiva del solito – nel ruolo “fondamentale” di Julieta, la fedele e “vendicativa ma non troppo” infermiera/agente del regista cieco (a sua volta un ottimo, misurato Luis Homar). Intorno a loro, una multiforme e densa miriade di personaggi vivificata dai divertiti e divertenti camei di Rossy de Palma e Chus Lampreave, oltre che dai due mirabili assoli di Angela Molina e Carmen Machi, per non parlare della dolcissima e “attonita” Lola Dueñas nell’ insolito, imprescindibile ruolo di interprete labiale dei dialoghi fra amanti, oltre che dei più misurati e “volutamente in ombra” altri interpreti maschili: l’adolescente omosessuale represso di Ruben Ochandiano (che ci riserverà più di una metamorfosi, ed è un elemento decisivo per la progressione drammaturgica della storia, oltre che per raccordare e saldare fra loro, consentendo a tutti i frammenti di trovare il loro esatto spazio collocativo, i vari piani temporali del racconto all’apparenza così disomogenei e fra loro distanti) a cui è affidato il compito “ingrato” e quasi maniacale di filmare il backstage delle riprese, e Tamar Novas, a più livelli assistente/seguace del regista e figlio di Julieta… ma come si scoprirà alla fine, non soltanto di lei, perchè ogni figlio ha – come è evidente e necessario - anche un padre !!!
Gli apporti di tutti i restanti collaboratori, sono come sempre più che di prim’ordine: la coinvolgente, bellissima colonna sonora di Alberto Iglesias piena di echi e di rimandi, la sfolgorante fotografia di Rodrigo Prieto densa di suggestioni poetiche e di riferimenti pittorici alla quale avevo già accennato prima, il montaggio a scatole cinesi di José Salcedoche che smonta e rimonta con nuove prospettive, le immagini girate, oltre che i momenti salienti della vita e delle passioni, le appropriate scenografie - naturali e non - delle ambientazioni, e i costumi pieni di inventiva che rappresentano e interpretano al tempo stesso, integrandosi davvero con l’anima dei personaggi dei quali sono al “servizio” esplicativo, dando loro la forma concreta dell’apparenza visiva.…
Insomma un film non so quanto “perfetto”, ma stimolante e di indubbio fascino evocativo, stilisticamente impeccabile e – quel che più conta credo questa volta - importantissimo per il suo autore.
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