Regia di Davide Ferrario vedi scheda film
Una regista teatrale. Il direttore di una prigione. Un cappellano che vuole mettere in scena la Passione di Cristo. E venti detenuti che aspettano solo che il tempo passi. Parte da qui Davide Ferrario per la sua «commedia con musiche» (il virgolettato è suo), dentro la Sezione VI, Blocco A, della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, zona sperimentale di un carcere che si sforza di essere sui generis e che comunque paga il dazio di una filosofia di redenzione e di rieducazione difficile, se non forse impossibile. La prima differenza di Ferrario (che, da ex critico cinefilo e militante, realizza da sempre un cinema differente) è che il suo vitalissimo Tutta colpa di Giuda non è l’ennesimo film su un carcere, non fa parte di quel non poche volte straordinario sottogenere carcerario (un titolo su tutti: Fuga da Alcatraz di Don Siegel, con un immenso Clint Eastwood), perché non è nemmeno un film, almeno nella sua accezione tradizionale. Tutta colpa di Giuda è, invece, una sorta di mockumentary riprodotto in un carcere, dove il realismo (lo squallore del posto, il grigiume delle atmosfere, l’aria poco respirabile, le speranze sopite) gioca e flirta con una nuova idea di cinema, una nuova cinepresa/telecamera (usata per la prima volta da Mel Gibson per Apocalypto), una rinnovata voglia di andare a guardare al di là degli steccati (culturali, professionali, umani) di cui si nutrono gli stereotipi, i pregiudizi, le politiche esclusivamente repressive. Oltre allo sguardo internazionale di Ferrario, l’opera si alimenta del corpo e degli occhi di una freschissima Kasia Smutniak. E dei volti e delle facce di decine e decine di detenuti veri, in attesa di un indulto che alla fine delle riprese c’è stato per davvero, in attesa forse di un nuovo Gesù, di un’altra occasione, di una sfida e di un’opportunità diverse.
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