Regia di Gustaf Molander vedi scheda film
Non è certo ardua impresa intravedere nella sceneggiatura di “Eva” la presenza dominante di un’interiorità bergmaniana filtrata nelle immagini attraverso l’occhio più maturo di Gustav Molander, autore del famoso “Intermezzo” con il quale fu lanciata Ingrid Bergman.
Ci viene qui presentata, più evidente che mai, l’ineluttabilità della morte, ovvero “il carnefice”, “il triste mietitore”, la cui ombra incombente ricorre ossessivamente lungo tutto l’arco della narrazione. Una morte inalata goccia dopo goccia che a tratti scandisce la sua apparizione col ticchettio di una sinistra pendola, descritta con immagini austere e misurate ma analizzata con minuziosa ossessività in tutta la sua disarmante evidenza senza tuttavia mai cadere nel patetico e nel consolatorio. Ad una lettura più rigorosa il film si presenta in forma alquanto composita. Il regista specie nella prima parte si dilunga nel descrivere minuziosamente la psicologia dei personaggi, introducendo dei continui flashback preesistenti alla radice di un conflitto interiore che sarà risolto solamente nell’epilogo, accompagnati da sequenze a carattere intimista che accumunano in maniera quasi sfacciata il tema dell’amore a quello della morte, applicando una giustapposizione visiva tanto ardita quanto coinvolgente nella sua semplicità che trova in un brano del “Cantico dei Cantici” un comune denominatore.
Nella seconda parte del film l’atmosfera muta bruscamente grazie anche ad una quanto mai ardita ellissi temporale che ci introduce in un’atmosfera torbida e decadente, prettamente bergmaniana, un labirinto dei sensi e delle emozioni dove il confine fra moralità ed amoralità appare totalmente annullato a favore di una concessione agli istinti primordiali dell’individuo. E fa il suo conturbante ingresso la “femme fatale” ma non troppo Eva Dalbeck, fascinosa come non mai, che si ritaglia una parte che in un certo qual modo richiama quella di Lana Turner (l’indimenticabile Cora Smith) in “The postman always rings twice” e l’altra di Marilyn Monroe nel ruolo di Rose Loomis in “Niagara”. La pellicola assume quindi per un certo lasso di tempo la netta fisionomia di un torbido melodramma con venature thriller-oniriche in un’ottica di passioni malate in cui il regista (e lo sceneggiatore) offrono il meglio di sé. Ecco quindi l’ancestrale spirito di autodistruzione dell’individuo emergere con prepotenza, sebbene sotto forma di suggestioni oniriche, evocate e rinfocolate dal risveglio degli istinti eversivi che dimorano nel profondo della psiche umana attendendo con impazienza di essere ridestati.
Risalta con evidenza la mano di Bergman in questa parte centrale che presa a sé stante rivela già un deciso passo avanti rispetto all’ancora acerba “Musica nel buio”, spianando la strada per “Città portuale” e “Prigione”, opere già mature, specie la seconda, indirizzata sulla strada di una ben precisa scelta espressionista.
A conferma della struttura filmica a strati sovrapposti, nel finale l’autore ritorna ad un’atmosfera più distesa dopo gli inevitabili tumulti dell’anima ed appare, perlomeno in nuce, l’evocazione di un prematuro silenzio di Dio che fa capolino tra le righe.
“Tutto va avanti senza senso finché non finisce,” afferma Eva Stiberg, la protagonista, “tutto è indifferente e privo di significato in un mondo in cui le cose accadono senza un vero motivo. Dio ha abbandonato l’umanità. Credo che Dio sia morto.”
In “Eva” la vita e la morte vanno dunque di pari passo anche nel finale, e ad un cadavere tumefatto che emerge dal mare si contrappone il placido vagito di un neonato che assume una funzione quasi di anestetico nei confronti di un radicale pessimismo bergmaniano che continuerà a manifestarsi sempre con maggiore insistenza.
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