Regia di Jim Jarmusch vedi scheda film
“Limits of control” riporta il cinema di Jarmusch ai fasti di “Ghost Dog”, che forse rimane il suo film migliore. Dopo un decennio di tentennamenti, il regista americano ritrova la strada di quel peculiare surrealismo raggelato e laconico che costituisce la sua cifra prediletta. “Limits of control” iscrive l’estro visionario entro i limiti di una progressione circolare, fatta tutta di rimandi cifrati, rime interne, motivi ricorrenti, reiterazioni con piccole variazioni, come in un pezzo di musica minimalista o in un rituale esoterico. Una coreografia di segni narrativi e stilistici, che si ripropongono e si ricombinano fra di loro ciclicamente, per comporre un meraviglioso affresco del Nulla. Ma non è un Nulla grigio, apatico, abulico, come nei film in b/n del regista: ma un Nulla creativo, fantasioso, lisergico. Viene in mente un’opera forse capitale del cinema contemporaneo, quell’ “Holy Motors” di Carax che un paio di stagioni fa celebrò la futile ma affascinante ricchezza della creazione cinematografica a fronte del più totale vuoto di senso, scaturito dalla morte del racconto filmico. E fa piacere apprendere di come un regista fra i più importanti del cinema post-moderno degli anni 80 e 90 sia ancora in grado di dire la sua su una scena terminale, ma al contempo rigenerata, come quella cinematografica “d’autore” di questi ultimi anni. Il film ricorda il citato “Ghost Dog”, di un decennio più vecchio, col quale Jarmusch esaltava il paradosso di una moralità fuori dal Tempo (il protagonista era un rapper/gangster nero che si comportava seguendo i codici desueti dei Samurai, suscitando imbarazzo e incredulità); anche qui il protagonista è un killer nero, solitario, quasi muto, che pratica la meditazione zen, ma c’è una differenza fondamentale col predecessore: ogni morale, ogni logica, ogni senso, ogni residuo di umanità è stato prosciugato. Il “racconto” si avviluppa in una geometrica e barocca composizione in cui è la forma a dominare sul contenuto: non contano infatti le disquisizioni dei personaggi sull’arte, la musica, il cinema (quante citazioni!), la scienza, la spiritualità. A contare è piuttosto la rigorosa collocazione e alternanza dei tratteggi formali: dal ralenti che accompagna tutte le entrate in scena degli enigmatici personaggi all’intervento della musica (splendido soundtrack noise/psichedelico) nei momenti di “trascendenza”, dai tormentoni verbali attribuiti ogni volta a figure diverse (persino un cantante di flamenco!) alla matematica giustapposizione di dettagli ricorrenti (i due caffè espresso, le due scatole di fiammiferi, il bigliettino etc…). Come uno Jodorowski spogliato da orpelli sciamanici e marxisti, come un Lynch sfilacciato e alla luce del sole, Jarmusch realizza un quadro di necessaria auto-referenzialità, un giro a vuoto in un universo sotto-culturale dove il Sistema (rappresentato da un triviale e grottesco Bill Murray, barricato in un bunker che è sineddoche di un astratto Potere occulto, rigorosamente statunitense) si sconfigge a forza di immaginazione, di messaggi in codice, di passaparola, di slogan, di un miscuglio kitsch di cultura e fuffa. La suggestiva ambientazione iberica (Madrid, Siviglia, il deserto andaluso), l’atmosfera onirica, la galleria di incontri criptici e di simboli indecifrabili, la presenza di un erotismo represso (la ninfa Paz de la Huerta, sempre nuda e tentatrice), il sottotesto politico eversivo (che però emerge solo nel finale) saldano il conto col Maestro assoluto del surrealismo, un certo Don Luis Bunuel.
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